Umbria mia, Umbria bella…
“Umbria mia, Umbria bella / tu sei come una sorella. / La verdura e la salciccia, / qua si mangia a tutta ciccia”. Questa è la poesia sull’Umbria che, quale compito assegnato dalla maestra nella V elementare di Spello, mi risulta che abbia composto in classe or sono due anni fa lo scolaro Alessandro Rossi che abita in un ameno casolare nella valle della Chiona. La prima parte del componimento è frutto di incantato innamoramento della terra natale invocata come fosse una “sirocchia” di frate Francesco. Nella seconda l’Autore esulta, invece, per il goloso godimento di essere nutrito da un’alma madre che sintetizza e trasforma la bellezza del paesaggio nella bontà del cibo che si fa carne. Lo spirito e il carattere degli Umbri comprendono entrambi questi impulsi, in apparenza, diversissimi eppure coesistenti ingredienti di una singolare e santa matteria illustrata in modo magistrale da Curzio Malaparte nel capitolo Umbria matta del suo Benedetti Italiani. Ebbene c’è un piatto che è sintesi del paesaggio ancestrale dell’alma mater umbra, cantata ed invocata dall’alunno Alessandro Rossi: è la “crescia” con dentro la “verdura”, ovvero erbe spontanee cotte, e le “salcicce”. In modo sorprendente tale paesaggio è presente come sotteso nel ciclo degli affreschi giotteschi della basilica superiore di San Francesco in Assisi. In particolare nel riquadro del miracolo delle stimmate, il paesaggio è incentrato sull’edicola conventuale della Verna. Le balse gialle dei seminativi sono sovrastate da imponenti querce camporili mentre in primo piano, come in un erbario miniato, spicca, distinta, la sagoma della borragine e dei papaveri. L’immaginario francescano e quello benedettino divergono anche grazie al diverso rapporto che i due ordini hanno con la natura, ché per il primo è oggetto di culto e per il secondo di coltura. Anche nell’alimentazione il rapporto con il cibo cambia e per il primo è frutto di questua, per il secondo di labor. La questua, per altro, rimanda ad un particolare rapporto che San Francesco ha con la terra e il suo Creatore. Nel Cantico delle creature il Santo chiama sorella la luna, le stelle, l’acqua e la morte corporale ma la terra, pur lei sorella, è definita madre e ciò è in parziale contraddizione con la natura puramente filiale di tutte le altre creature, “fratelli” e “sorelle”, in cui è inserita. Altresì, siccome Dio viene dalla radice *vid di vedere, è assimilato al luminoso cielo stellato e a quella del diurnus, ovvero il giorno, così homo, che viene da humus, è legato alla terra, e l’humilitas è la virtù che è esaltata in tanti modi da San Francesco non solo nella predica agli uccelli dove si evoca, provvidenziale, la natura alma, ovvero nutrice, della “madre terra”. Questa fornisce l’alimento all’alunno ovvero l’homo nutrito e per lui si rivela madre e tomba sulla quale nuda il Santo volle adagiarsi negli ultimi istanti prima di esservi accolto per sempre. Altresì, “cerqua”, cerro, “crescia”, “crescione” e “crescenza” hanno una comune radice, *cer, la stessa che è presente in “crescere”, “creare”, Cerere, e “cereale”. Pertanto le erbe spontanee che confluiscono, come “verdura”, nella “crescia” con le salcicce concorrono, come cibo, a scrivere il riassunto del paesaggio agrario, il più arcaico ed essenziale dell’Umbria. Questo è presente negli affreschi di Giotto ed è composto da grandi querce camporili, le cui ghiande erano il sostentamento dei maiali e all’occorrenza anche degli uomini, da gialli seminativi di cereali e da erbe spontanee, come nel riquadro del miracolo delle stimmate. I seguaci di San Benedetto si possono immaginare a zappare l’orto e nutrirsi coi frutti del loro lavoro. “Sto coi frati e zappo l’orto”, recita un adagio non di ieri. San Francesco non bisogna necessariamente figurarselo intento a raccogliere le erbe campagnole, perché viveva di questua e nelle cronache sono menzionati altri alimenti ricevuti in omaggio. Addirittura nei Fioretti di Fra Ginepro è presente una surreale acquisizione da parte della comunità monastica di un intero porcello già mutilato dal frate. Tuttavia queste erbe spontanee sono coerenti con la francescana “sorella madre terra”, alma mater dei suoi figli, gli uomini, dei quali è madre e tomba e che da lei prendono il nome e il nutrimento. Queste erbe sono presenti negli affreschi di Giotto e possono con la loro presenza fiorita essere anche un indicatore di stagione. Nel medioevo non si raffigurava sui muri della chiese una cosa piuttosto che un’altra tanto “per bellezza”. Le pitture erano i libri laicorum, ovvero del popolo che ignorava le litterae dei chierici ma conosceva e sapeva leggere benissimo l’alfabeto con cui erano scritte le pincturae ovvero i libri che, come quello illustrato da Giotto nella basilica del Santo, erano fatti per lui.
IVO PICCHIARELLI