Alla scuola di Sterpete negata la benedizione pasquale
Se l’acqua santa diventa un problema
Io non so chi sia il Dirigente scolastico della scuola primaria di Sterpete e non desidero saperlo: non per mancanza di educazione, ma perché non penso sia, assolutamente parlando, responsabile di alcunché. Un Dirigente scolastico è un bersaglio troppo comodo ed io, per natura, ho reazioni cutanee violente di fronte alle solite erbe raccolte in fasci. Non mi interessano neppure i seriosi contrafforti delle circolari, dei decreti e delle sentenze; non m’importa che l’eventuale decisione sia o meno passata alle forche caudine di un Consiglio d’Istituto, dei protocolli addizionali e delle legittimità costituzionali. Nulla. Io dico soltanto che un genitore la cui figliola frequenta la primaria di Sterpete mi ha detto: «Niente benedizione di Pasqua a scuola. Lo scriva. Può fare qualcosa lei?». No; io no. Staremmo di nuovo a dibattere di questioni spinose, questioni di fronte alle quali si è palesata una sciagurata inerzia, perché la correttezza è stata scambiata per alterigia culturale, la serietà per mancanza di apertura, la dignità per l’offesa al cosmopolitismo, la frequentazione dei nostri valori per evidente scarsezza propulsiva all’accoglienza. A confermare che non c’è mai una discussione seria, il problema è ora l’acqua santa: pioverebbe molesta sul relativismo culturale e sulle sensibilità di qualcuno, come se l’uno e l’altra non avessero robusti ombrelli da aprire all’occorrenza. No, gentile lettore, io non posso fare niente, ma Lei sì. Lei ed altri genitori che ritengono la laicità un valore positivo, cioè un valore esattamente opposto alla neutralità che diventa retrocessione culturale, potete chiedere che venga rispettato anche il vostro punto di vista. Qualcuno avrà detto: non vogliamo la benedizione pasquale a scuola. Voi chiedete esattamente l’opposto. Se credete che la nostra cultura si scomponga e si fratturi, qualora si distacchi dalle radici dalle quali ha avuto alimento e vita, ditelo con franchezza perché il tempo della vile prudenza feconda le nubi della tensione e dell’incomunicabilità, rende fertile il rancore, fa avvertire più acre l’ustione dell’ingiustizia. Ed è sempre una retrocessione. Non le sto dicendo, badi bene, che siano più giuste le due ordinanze del Consiglio di Stato (la 391 e la 392 del ’93), o la sentenza 3635 (del 2007) del Tar del Veneto, piuttosto che quelle del Tar dell’Emilia (di cui, mi perdoni, non rammento il numero, ma erano del ’93). Mi chiedo soltanto: che imposizione può essere, per atei o credenti di altri fedi, l’aspersione dell’acqua? Perché tale sarebbe per un non credente o per un credente altro: aspersione di acqua in una stanza. Perché dovrebbe sentirsene offeso qualcuno? Bisogna prendere le distanze dall’idea che una democrazia, per sentirsi compiutamente tale, debba escludere per forza l’espressione di una fede da qualsiasi contesto pubblico (leggere l’articolo di E. Galli Della Loggia Il laicismo obbligatorio, in Il Corriere della Sera, 15 gennaio 2008). Ma anche lasciando come marginale una simile osservazione, resta il fatto che nulla vieta, ai genitori che lo desiderino, esprimersi a favore di qualcosa rispetto alla quale qualcun altro si è espresso con sfavore. È esercizio di democrazia, questo, senza il quale ogni giudizio che si possa formulare diviene pregiudizio, sia da parte degli uomini di fede, chiamati a testimoniare e mai ad imporre, sia da parte di chi vorrebbe negare sempre e comunque alla Chiesa la sua presenza nella società civile. Io sono fiducioso. Ho speranza che tutti rileggano l’articolo di Natalia Ginzburg, Non togliete quel crocifisso, pubblicato su l’Unità del 25 marzo 1988, pag. 2. L’argomento non è distante da quello che ci ha interessato stasera, ma soprattutto i contenuti sono espressione di un’intelligenza che lascia spazio alla felicità del cuore e del pensiero. Il resto – i dirigenti e le commissioni, le ordinanze e le sentenze, i malumori e i grattacapi – non c’entrano niente.
GUGLIELMO TINI