D'Alessandro

Se la cura è… la vita

Il dottor D’Alessandro mi dà appuntamento al Centro di Salute Mentale di via dei Molini. La sigla sarebbe CSM, ma si dice ancora CIM. Entro con immotivata diffidenza e quando mi presento in segreteria sono colto da un pensiero di cui immediatamente mi vergogno: “Si capirà che non sono un paziente?”. Spaventato dall’idea che la mia assurda preoccupazione possa materializzarsi sopra alla mia testa come la nuvoletta in un fumetto, arrossisco e mi vado ad accomodare in sala d’aspetto. D’Alessandro, che è il responsabile del Centro di Salute Mentale di Foligno, oltre che di quelli di Spoleto e Valnerina, mi viene incontro e mi accompagna nel suo studio. Mi presento, spiego l’idea di affrontare il tema delle malattie psichiatriche in una serie di articoli e comincio la mia intervista. Naturalmente con la domanda sbagliata:

D'AlessandroChe cos’è la mente?

D’Alessandro sorride e mi fa cenno di andare avanti.

Mi dica almeno perché la mente si ammala…

Innanzi tutto non si ammala la mente. Si ammala la persona. E le cause che possono far insorgere le malattie sono molteplici. Da una predisposizione genetica, a un evento traumatico, fino alla assunzione di sostanze o all’insorgere di dipendenze.

È possibile fare prevenzione rispetto alle malattie psichiatriche?

È indispensabile, se non altro per una ragione pratica. Gli stati di malattia severa prima vengono affrontati meglio è. Prendiamo ad esempio una depressione trascurata per anni, nel momento in cui arriva all’attenzione dei clinici ha già creato danni enormi, che non sono soltanto relativi al processo patologico, ma riguardano anche la sfera sociale, affettiva, familiare. Non si è, in altre parole, solo aggravata la malattia, è peggiorata la vita, magari in modo irreversibile. La stessa cosa per gli esordi della schizofrenia. Ormai la letteratura internazionale è concorde su questo…

Perché è così difficile intervenire già ai primi sintomi?

Perché lo stigma legato alla malattia psichiatrica è quasi più grave della stessa malattia. Mi riferisco a tutto quell’insieme di aspetti che si ritengono in qualche maniera parte integrante del disturbo e agli stessi luoghi di cura i quali, essendo connotati negativamente, tengono le persone lontane. La presenza di servizi pubblici sicuri ed affidabili riduce questa difficoltà di accesso, ma, in ogni caso, noi non vediamo tutti i pazienti che avrebbero bisogno di essere trattati…

A volte la malattia stessa è di per sé un ostacolo…

Quando sono gli altri a dirti che forse stai male, che forse sei esaurito, che sei matto, è normale, almeno all’inizio, opporsi alla prospettiva. Ognuno di noi è giustamente persuaso dei propri processi di pensiero e i nostri pazienti non hanno disturbi logici: dal punto di vista formale il pensiero, anche nelle malattie più gravi, funziona molto bene. Per questo molto spesso, prima di arrivare al trattamento, si apre una lunga contrattazione in ambito familiare per cercare di convincere la persona a curarsi. Spesso ci troviamo compressi tra il riconoscimento del diritto delle persone anche a non essere curate e la richiesta, a volte la pretesa, della famiglia, di curare. Sono necessari degli equilibrismi per procedere tra queste due necessità, ma sono questi i percorsi che qualificano il ruolo dei servizi. Un processo di cura che avvenisse senza il consenso informato del paziente, con la piena consapevolezza delle problematiche, dei percorsi, delle terapie, sarebbe infatti privo di qualunque possibilità di successo.

Quali percorsi si trova ad affrontare una famiglia di un malato psichiatrico?

In genere, almeno in una prima fase, c’è inevitabilmente una lettura morale della situazione. I familiari tendono dapprincipio a richiamare all’ordine chi mette in atto comportamenti magari solo stravaganti. Dopodiché, quando i disturbi diventano rilevanti nella vita di relazione, come un ragazzo che smette di andare a scuola, un padre che smette di andare a lavorare o una mamma che non si alza dal letto, si inizia a pensare a una malattia fisica e si fanno accertamenti. In genere il primo ad intervenire è il medico di medicina generale… Quando si percepisce che il problema è forse di ordine psichiatrico, inizia il giro delle visite. Nella mia esperienza spesso si passa attraverso professionisti privati per poi arrivare, quasi per gravità, al Centro di Salute Mentale.

Tutte le malattie generano esclusione sociale, ma quelle psichiatriche in modo particolare. Perché i matti ci fanno così paura?

Si tratta di un pregiudizio smentito da tutte le casistiche nazionali ed internazionali, anche criminologiche. I matti non delinquono più della popolazione normale, non uccidono più della popolazione normale. I matti non si suicidano più della popolazione normale, anzi, la gran parte dei suicidi è messa in atto da persone che non sono in trattamento. L’idea di un matto che fa paura è legata alla pretesa irrazionalità dei suoi comportamenti, che, quindi, non sarebbero prevedibili. Se però facciamo rientrare tutti i comportamenti deviati inspiegabili nell’alveo della follia, allora il folle ed il pericoloso finiscono per coincidere. Allora cambia tutto. E questa è una delle ragioni dello stigma delle persone nel farsi curare…

Chi chiede una visita al Centro di Salute Mentale si pone a volte delle domande che denunciano questa paura: mi leveranno la patente, il porto d’armi? Perderò il lavoro? Mi toglieranno i figli? Una signora qualche tempo fa mi ha chiesto: Ma se io mi iscrivo al CIM, poi mi posso cancellare? Un servizio presente, fatto di facce conosciute, può aiutare a ridurre queste paure e far percepire che l’opzione della cura è quella che permette di mantenere la patente, il porto d’armi, i figli… di continuare a vivere la propria vita nella assoluta pienezza.

I manicomi sono stati chiusi nel 1978. A 36 anni di distanza a che punto siamo rispetto all’obiettivo del pieno inserimento dei malati nella vita sociale?

Siamo lontanissimi. La chiusura dei manicomi è stato un fatto epocale, sottovalutato sia sul piano sociale che scientifico, e al quale non sono seguiti i necessari investimenti. È come se domattina si riuscissero a chiudere tutti i reparti di medicina e si potesse organizzare la cura di tutti i ricoverati a casa. La psichiatria ha fatto questo. Lo ha fatto, certo, anche per ragioni economiche: il manicomio di Perugia aveva mille e duecento ricoverati e duemila addetti, praticamente la più grande fabbrica della città. Ma la chiusura dei manicomi è stata determinata soprattutto da ragioni scientifiche, perché la malattia rinchiusa si cristallizza e si riducono le possibilità di cura. È evidente però che se reinserimento e riabilitazione sono parte indispensabile del processo terapeutico, poi vanno portati avanti! I nostri pazienti, soprattutto quelli che stanno meglio, dopo periodi più o meno lunghi di cura, hanno soprattutto bisogno di forme di reinserimento sociale, lavorativo, di reddito, di libertà. E qui noi zoppichiamo molto perché le risorse destinate a questo sono sempre meno. Ma non è solo questo il problema. Siccome gli strumenti legislativi esistono, forse dovremmo poter contare su una maggiore solidarietà da parte del corpo produttivo. Molti dei nostri pazienti, perfettamente in grado di lavorare, possono godere di borse lavoro e di forme di incentivi che ne renderebbero assolutamente conveniente l’impiego. Una società in crisi deve saper ripartire dagli ultimi.

Su questa frase spengo il registratore, ma non finisce la conversazione, né il bisogno del dottor D’Alessandro di spiegarmi che più che la malattia in psichiatria è il contesto a fare la differenza. Avere o non avere un lavoro o una famiglia. Essere ricchi o poveri. Persino belli o brutti, simpatici o antipatici. Malattie della vita, che solo la vita può pienamente curare.

VILLLELMO BARTOLINI

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Riflessioni dopo una sentenza

  1. Silvia
    14 Maggio 2020

    Tutto vero. Ben detto, Dr.

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