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Memorie di un cane randagio

Al CIAC gli scatti di Daido Moriyama

Ciondola per la città un cane sciolto con la sua compatta. Non più le geishe, i samurai, i giardini zen o gli alberi di ciliegio dell’iconografia nipponica. Nel Giappone di Daido Moriyama c’è un randagio, una testa di pesce, una donna che si depila, calze a rete, panni stesi che fanno poco paese del Sol Levante. Il CIAC, in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e la sua Fondazione Fotografia, dedica al fotografo giapponese la mostra “Visioni del mondo”. Gli scatti di Daido Moriyama mostrano un apparente affanno esistenziale. In realtà non di affanno si tratta, ma di premeditata sparizione del fotografo, un farsi piccolo, l’annullarsi al momento dello scatto per poi riproporsi nell’asprezza dell’immagine. Come l’abito non fa il monaco, così lo strumento fotografico non fa il fotografo. Moriyama non fu schiavo degli ingranaggi della Leica o dei quarzi della Zeiss. Per realizzare le sue inquadrature casuali, le sue esposizioni improbabili, le sue fotografie graffiate, sporche, sgranate, accecate di luce, etichettate, utilizzava una basilare Ricoh. La mostra spiega l’evoluzione del concetto di fotografia nella percezione della gente. La cifra stilistica di Moriyama è di sorprendente modernità, anticipatrice della figura dello street photographer. A noi giovani, che ci destreggiamo con gli smartphone, Moriyama ci conquista. Davanti ai suoi scatti ci accorgiamo che in fin dei conti gli strumenti di telefonia mobile, che utilizziamo per abusare della luce, possono ben sostituirsi al mezzo fotografico. Perché lo scatto non è altro che l’ultimo atto di una scelta interiore. E ci accorgiamo che un po’ di Moriyama, in fondo, c’è anche nei patiti di Instagram. Fotografare per strada oggi è dare quotidiano sfogo ad una natura nevrotica ed esibizionista. Per taluni è inchiodare istanti per poi lanciarli in rete come schiaffi in faccia al mondo, come segnali della nostra capacità critica. Non c’è niente di figo nel dare schiaffi, così come nelle foto di Moriyama. C’è lo spirito del tempo, la denuncia del degrado dell’essere umano, la dichiarazione definitiva che non ci sarà un altro Rinascimento. Lui ci ha solo preceduti tutti quanti. Ha cominciato cinquanta anni fa, quando alla fine degli anni ‘60 girò il Giappone a bordo della sua malmessa Toyota, imprimendo su pellicola ciò che lo circondava. Un bulimico compulsivo dello scatto, come lo siamo noi oggi, per il quale ogni singolo oggetto offertosi al suo sguardo è degno di essere fotografato. Anticipò l’attuale babilonia, annotando miserie e frustrazioni, attraverso le poche sfumature possibili concesse dal bianco e nero. Diceva: “Ci sono momenti in cui per me la fotografia ha a che fare più con la memoria che non la documentazione”. Eppure le banali foto ricordo non fanno parte del suo portfolio. Sono soprattutto una sfilza di scatti random da rivedere alla fine del viaggio. Sabato scorso, a giudicare dagli apprezzamenti provenienti dai giovani fotografi presenti al CIAC, sembrava di percepire un’atmosfera di incoraggiante ottimismo, una di quelle che non si prova davanti alle foto di Basilico e di Weston. Qualcuno davanti alla foto del cane spelacchiato o delle calze a rete ha candidamente creduto che la fotografia costituisca un’arte media a portata di ogni iPhone. Mai impressione fu più sbagliata.

FRANCESCA FELICETTI

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