Il Prefetto parte, il problema resta
La frase eccessiva ed aspra, indirizzata dal Prefetto di Perugia alle mamme che non si accorgono quando i loro figli si drogano, è risultata davvero infelice, soprattutto per le famiglie che vivono sulla propria pelle, talvolta impotenti, il dramma della tossicodipendenza. Probabilmente il Prefetto voleva suonare l’allarme e stimolare il coinvolgimento della città dove, negli ultimi tempi, troppe cose sono forse sfuggite di mano, se è vero che a spaventarsi dello sballo giovanile – con le conseguenze sociali e le ricadute d’immagine – sono stati in tanti: dagli abitanti del centro all’Università, dalle forze politiche ai tutori dell’ordine, dalla Chiesa ai giornali. Partito il Prefetto, sul problema pare essere sceso il silenzio dell’imbarazzo e del perbenismo. D’altro canto, il capoluogo ha fretta di migliorare l’immagine, candidato com’è a capitale della cultura. E dunque, perché parlarne? Perché i problemi – la seduzione della droga, dell’alcol e dello sballo, le varie forme di violenza insensata, le famiglie che di tutto questo si allarmano e la scuola che a volte non sa più cosa fare – riguardano un po’ tutte le città della regione. Perché neppure Foligno ne è immune,se la politica cittadina finisce per interessarsi dei giovani solo per condurli sulle vie del divertimento e del consumo, dove a consumarsi è la loro stessa vita, anziché proiettarli in un futuro capace di promesse. Perché, infine, tutti dovremmo avere il coraggio e l’onestà di interrogarci su quanto sia diventato difficile oggi educare. Ragazzi fragili, adulti educatori assenti o sfiduciati. Riflettendo sui tanti giovani in seria difficoltà, Umberto Galimberti li vede aggrediti da un malessere dell’anima, che nasce quando la società degli adulti continuamente afferma l’inutilità del mondo dei giovani: “Perché – si domanda – i giovani vivono di notte? Perché di giorno nessuno li convoca, nessuno li chiama per nome, nessuno mostra un vero interesse per loro. Questa è anche la ragione per cui si drogano. Che cos’è la droga se non una forma di anestesia, un non voler essere in un mondo che altro non concede loro se non di assaporare sino alla nausea la loro insignificanza sociale? Questo è il nichilismo che attanaglia i giovani, i quali, nella gran parte, non soffrono, come si crede, di problemi esistenziali, ma di un contesto culturale che li fa sentire inessenziali, quando non addirittura un problema”. Sulla responsabilità degli adulti insiste anche Don Armando Matteo nel suo ultimo e provocante libro su L’adulto che ci manca (Cittadella editrice). Non usa mezzi termini: gli adulti, i nati cioè tra il 1946 e il 1964, amano la giovinezza, ma non i giovani, votati come sono a condurre un’esistenza per la quale la massima ambizione è sembrare giovani il più a lungo possibile; mentre i giovani finiscono con il sentirsi orfani degli adulti. Ma come possono gli adulti insegnare ai giovani che c’è qualcosa oltre la giovinezza per la quale vale la pena impegnarsi a costruire, se per loro non c’è nulla di meglio che restare sempre giovani? Starebbe qui, per don Matteo, l’attuale incapacità degli adulti di educare le nuove generazioni.
Gazzetta di Foligno – ANTONIO NIZZI