“Noi speravamo”
L’editoriale del Vescovo Gualtiero per la Pasqua
L’aurora della Pasqua del Signore ha incendiato di luce nuova il mondo intero, ma in quello straordinario giorno dopo il sabato i cuori delle donne e dei discepoli hanno fatto fatica a riscaldarsi, oppressi dal timore, dalla delusione, dal pianto. “Noi speravamo” (Lc 24,21): sulle labbra dei discepoli di Emmaus risuona questo grido, che tradisce la loro rassegnazione, autentica maschera della disperazione! Il verbo sperare, coniugato all’imperfetto, esprime delusione, rimpianto, amarezza, turbamento. Forse, senza accorgercene, affiora anche sulle nostre labbra!
– “Noi speravamo”: è il gemito degli anziani che avvertono il peso della solitudine più che il carico degli anni, perché non hanno nessuno che li ricordi, li soccorra e li consoli.
– “Noi speravamo”: è il grido di tanti fanciulli e adolescenti, spettatori inermi della lacerazione del tessuto familiare, procurata dai conflitti dei loro genitori.
– “Noi speravamo”: è il lamento delle giovani generazioni che al termine della scuola dell’obbligo o degli studi universitari si trovano ad affrontare il dramma della disoccupazione.
– “Noi speravamo”: è il gemito di coloro i quali – diventati legione! – non hanno più un lavoro e vedono ripetutamente delusa l’attesa di un nuovo impiego, stabile e dignitoso.
– “Noi speravamo”: è il grido di chi ha perso una persona cara, colpita da una grave malattia che non ha lasciato nemmeno uno scampolo di tempo alla serenità e alla fiducia.
– “Noi speravamo”: è il lamento di quanti, oppressi a lungo dalla dura schiavitù del peccato, dimenticano che “non c’è alcun limite alla misericordia divina offerta a tutti”.
– “Noi speravamo”: è il gemito dei poveri, soffocati dalla miseria che, come scrive Papa Francesco, “è la povertà senza fiducia, senza solidarietà, senza speranza”.
Quanto sia lancinante il grido dei poveri me lo ha testimoniato, di recente, un uomo che ha perso la famiglia, il lavoro e la casa. Dopo un lungo girovagare, durato anni, che lo ha portato dal precipizio della rassegnazione fino all’abisso della disperazione, ha trovato riparo in un sottoscala, messogli a disposizione da una persona povera come lui e persino malata, che vive in un’abitazione angusta insieme con la mamma affetta da alzheimer. Nel presentarmi con fierezza il suo generoso benefattore mi ha confidato che lui solo gli è amico, soltanto lui gli vuol bene! Nel salutare con ammirazione questo albergatore “senza licenza”, mi accorgo che tiene tra le mani una copia della Bibbia di Gerusalemme, che mi mostra come se fosse un biglietto da visita per aver titolo a stringermi la mano e a lasciarsi accarezzare lo sguardo. Una Bibbia in mano, custodita nel cuore! L’ho salutato con queste parole a cui egli ha replicato lasciandosi sfuggire un sorriso, ma con pudore, tenendo gli occhi bassi.
Questo silenzioso dialogo mi ha ricordato che “amore e dolore sono le due forze che reggono ogni cuore”. È quanto insegna sant’Angela, che ha trovato all’ombra luminosa della Croce “il punto di perfetto equilibrio fra amore e dolore”. È per questo che la liturgia pasquale osa dire: “Ave Crux, spes unica”.
+ Gualtiero Sigismondi