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Urge un recupero di legalità

Sono passati 22 anni da quando la Commissione ecclesiale Giustizia e pace pubblicava una Nota su Educazione alla legalità. A rileggerle oggi, pensando anche, ma non solo, alle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi – l’ultima punta di un iceberg pericoloso qual è l’eclissi della legalità, che nel nostro paese ha origini antiche e la cosiddetta seconda Repubblica pare non averle rimosse -, quelle parole sono ancora un monito severo e attualissimo. Non sta a noi licenziare o meno l’uomo politico più importante del ventennio, ci interessa invece richiamare l’appello dei Vescovi perché si sviluppi, attraverso una seria opera educativa, un più maturo senso di legalità, stante l’affievolirsi della moralità e del diritto nelle coscienze e nei comportamenti di non pochi cittadini. E quando si smarrisce il senso delle norme che devono guidare e si afferma l’inosservanza delle leggi civili giuste, si finisce poi con l’inquinare profondamente il nostro tessuto sociale, compromettendo la giustizia, il bene comune, il senso dello Stato. L’eclissi della legalità, denunciavano i Vescovi italiani, si manifesta nel nostro Paese non solo nell’esplosione della grande criminalità, o in quella dei colletti bianchi che volge a illecito profitto la funzione di autorità di cui è investita e asserve la pubblica amministrazione a interessi di parte, ma è la stessa determinazione delle regole generali di convivenza a risultare inquinata. Le leggi, che dovrebbero nascere come espressione di giustizia, e dunque di difesa e di promozione dei diritti della persona, e da una superiore sintesi degli interessi comuni, sono spesso il frutto di una contrattazione con quelle parti sociali più forti che hanno il potere di sedersi, palesemente o meno, al tavolo delle trattative, dove esercitano anche il potere di veto. Tutto ciò ha portato ad elevare al massimo il potere ricattatorio di chi ha una particolare forza di contrattazione, ad aumentare il numero delle leggi “particolaristiche” (cioè in favore di qualcuno) e a ridurre invece drasticamente le leggi “generali”, vanificando così le istanze di chi non ha voce né forza”. Il documento criticava anche la classe politica che “con il frequente ricorso alle amnistie e ai condoni, annulla reati e sanzioni e favorisce nei cittadini l’opinione che si possa disobbedire alle leggi dello Stato. Chi si è invece comportato in maniera onesta può sentirsi giudicato poco accorto per non aver fatto il proprio comodo come gli altri, che vedono impunita e perfino premiata la loro trasgressione della legge”. Ma così facendo, lo Stato è divenuto sempre più debole: affiora l’immagine di un insorgente neofeudalesimo, in cui corporazioni e lobbies manovrano la vita pubblica, influenzano il contenuto stesso delle leggi, decise a ritagliare per il proprio tornaconto un sempre maggiore spazio di privilegio. Infine, i Vescovi richiedevano l’applicazione anche coattiva delle legittime regole di comportamento nei confronti di tutti, evitando che siano i deboli e gli onesti ad adeguarvisi, mentre i forti e i furbi le disattendono. La Nota risale al 4 ottobre 1991: prima Repubblica. Ma pare scritta proprio oggi.

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