roberto cruciani

Foligno-Barcellona andata e…

In viaggio con Roberto Cruciani, 35 anni, folignate in terra catalana
Precarietà lavorativa significa “poca zavorra, pochi bagagli, poche cose stabili”. Da noi si dice: “Ma chi te lu fa fa’!”

Parlare con Roberto è terapeutico; quando ci incontriamo -ormai purtroppo capita di rado- ce lo diciamo spesso: “Facciamo un po’ di terapia?”. Abbiamo un percorso di studi simile, siamo uniti da una grande amicizia e ci capiamo al volo.

roberto crucianiOra la tua casa è a Barcellona?
“Home is where I want to be” (Casa è il posto in cui voglio stare, ndr), dice la canzone dei Talking Heads. Ed è così per me ormai da diversi anni. Dall’università ad oggi non so più quanti posti ho chiamato “casa”. Adesso sono a Barcellona, immerso in una vita con il suo equilibrio che arriva da lontano e si fa largo dopo mesi di fatica e paure affrontate.

Andiamo con ordine. Il Liceo Scientifico, la laurea in Scienze Politiche e poi?
Dopo la laurea ho trascorso circa un anno e mezzo cercando lavoro, senza saper bene quale fosse la direzione da prendere. Brevi esperienze lavorative a Foligno e Perugia, poi la decisione, “me ne vado”.

Perché?
Le ragioni sono molte, ma forse l’atteggiamento folignate, diciamo così, “resistente al cambiamento”, è stato lo stimolo maggiore nel prendere la decisione di lasciare casa.

In che senso?
Ma chi te lu fa fa’!”. Per le vie, i bar, i campetti e le panchine, i Canapè, sotto l’Alunno, in taverna, allo stadio, al Corso, riecheggia questa frase. Valida per giovani e anziani, senza distinzione. Forse è la frase che riassume un modo di vivere che non sopportavo più.

Quindi Foligno cominciava a starti stretta?
Adoro Foligno, ma avevo la sensazione che le persone vivessero come in una tana, con un’unica realtà a disposizione: la paura.

Paura di cosa?
Di tutto ciò che non è all’interno di quella tana. E quindi pronte a snobbare, giudicare, condannare con superficialità, arrivare a facili conclusioni e scartare tutto quello che semplicemente non conoscono. Giocare a fare i giovani vissuti, senza aver vissuto un emerito nulla.

E quindi sei partito dalla tua città…
Destinazione Milano. Un grande amico di adolescenza trasferitosi lì e un trolley straripante di paure erano quello che avevo nel 2009, anno in cui ho mollato definitivamente gli ormeggi da Foligno.

Come è stato l’approccio con Milano?
Conoscere la “signora Milano” è stato scioccante. “Chi sei?” sembrava domandarmi questa donna elegante, sicura e moderna, che accoglie, ma esige rispetto, che seleziona e scarta, senza pentirsi, chi non si adegua. Eccola la New York italiana, con uomini da tutta Italia, da tutto il mondo. Le strade percorse da chi “ci prova” e anche da chi alla fine dice… “ma chi me lu fa fa’”.

Hai trovato subito lavoro?
Ho vissuto per circa 4 mesi tra il divano e il letto del mio amico, un corso di formazione professionale in Comunicazione e i miei Curricula dispensati in giro per la città come granturco ai piccioni di Piazza della Repubblica!

E poi?
Proprio quando ero allo stremo e sul punto di pronunciare la famosa frase folignate, è arrivata la chiamata di un’importante agenzia pubblicitaria, che mi ha inserito come editore in un progetto da realizzare per una grande multinazionale. Contratto di pochi mesi, orari di lavoro assurdi, paga da fame, stress e condizioni tali che solo il pensiero “vedrai che ti sarà tutto utile” riesce a tenerti a galla.

Ma ce l’avevi fatta! Avevi trovato lavoro a Milano… Foligno era ancora nei tuoi pensieri?
Sì, pensavo spesso al mio ritorno: avrei tanto voluto fare una corsa come fanno i bimbi verso il grembiule della mamma. Ero lì a confrontarmi con una realtà di lamiera, cruda, pronta a competere, e che non aspetta altro che farti sentire inadeguato. In dotazione avevo solo le “armi” della mia terra umbra: pazienza, forza, semplicità.

Lati positivi?
Un’esperienza professionale e di vita, quella di Milano: sono legato a questa città come un calciatore si affeziona alla sua prima vera squadra, al primo allenatore che lo motiva, che gli fa scoprire le sue doti, i suoi limiti, lo schiera sempre titolare e lo fa stancare. Eh sì, stancare. È proprio dietro la stanchezza che si nasconde qualcosa di buono, è dietro la paura affrontata che c’è il vero riposo. E alla fine, rientrando negli spogliatoi, ci si sente orgogliosi di se stessi.

Terminato il primo contratto di lavoro?
Per circa due anni mi sono mosso in questa agenzia con contratti che vanno da tre a sei mesi. Mi sentivo talmente precario che non avevo nemmeno il coraggio di comprarmi una bicicletta: “Se tra un mese me ne vado, dove la metto?”.

Si dice che la precarietà lavorativa comporti la liquefazione delle certezze…
La condizione lavorativa forma lo stato mentale. La vita diventa una sorta di “ready to go”. Quindi poca zavorra, pochi bagagli, poche cose stabili e a lungo termine: niente abbonamenti a palestre o teatri, niente acquisti per arredare una casa non tua, …figuriamoci se pensi di comprartela! Con te viaggiano altri passeggeri precari, che sfilano come gente all’autogrill: colleghi, coinquilini, amici e persino la cassiera del supermarket del quartiere, mentre passa la tua porzione singola di verdure, sa che te ne potresti andare da un giorno all’altro senza nemmeno un saluto.

Ma tu hai continuato a cercare altri lavori?
Sì, sempre. Nei mesi successivi sono riuscito a strappare un colloquio con una nuova azienda di e-commerce nata in Spagna, ma che si stava strutturando anche in Italia, a Milano. Mi avevano proposto un stipendio buono, sei mesi di contratto, al termine dei quali mi avevano assicurato che avrei avuto l’ambitissimo “contratto a tempo indeterminato”.

Hai colto l’occasione?
Sì e ho cominciato un nuovo percorso come copy-writer, occupandomi della stesura di offerte online per prodotti, viaggi, ristorazione e benessere. Lavoro meno complesso, a volte ripetitivo, ma stipendio decente.

Passati i sei mesi, finalmente un contratto a tempo indeterminato, giusto?
No. Per ragioni poco chiare mi hanno detto che non si poteva stipulare il contratto a tempo indeterminato e mi hanno offerto altri sei mesi con la solita promessa… Come me altri colleghi, tutti con gli stessi dubbi rinnovati. Però cominciavo a trovare anche uno strano equilibrio che mi faceva sentire libero in una città che iniziava ad amarmi e che io amo davvero.

Quando hai deciso di lasciare l’Italia?
Settembre 2012, dopo aver trascorso un anno in quest’ultima azienda. Il re dei contratti lavorativi non ci sarebbe stato per nessuno, ma ci viene fatta una proposta: un periodo lavorativo a Barcellona, presso la casa madre dell’azienda. Mille pensieri, ma venti giorni dopo sono in terra catalana. Comincia uno dei periodi più complessi e faticosi della mia vita. Parto senza nemmeno conoscere la lingua.

E come hai fatto? Dove sei andato a vivere?
Alberghi, ostelli, pensioni; nel tempo libero ricercavo una camera in affitto in un appartamento da condividere. Ma quello che ho visto è sconcertante: appartamenti come catacombe, stanze senza finestre, materasssi buttati a terra, gente che trasforma la sua dimora in una tana inquietante, senza anima. La conformazione delle case è diversa dalla nostra. Da noi è normale avere una finestra in ogni ambiente, qui un lusso.

Ma non sembra questa l’immagine che solitamente viene data di Barcellona.
Infatti, l’immagine che vogliono dare all’estero è quella di una città moderna, all’avanguardia, solare e proiettata verso il futuro. Ma c’è una grossa fetta di Barcellona che trasuda di cupo e di incredibilmente arretrato. Attraversando alcuni quartieri e assistendo a scene di vita quotidiana sembra di vivere in un’Italia del Dopoguerra.

Incredibile…
È una città “violentata” da gente di passaggio, che la usa e la lascia lì. Con il suo immenso miscuglio di ricchissimi e poverissimi, l’infinita mescolanza di etnie e l’inesauribile flusso turistico che la sfigura, Barcellona è una città che fatica a trovare un’identità. Credo che anche per questo i catalani abbiano sviluppato un forte senso di appartenenza: ne hanno bisogno, si perderebbero.

È stato facile inserirsi in questa nuova terra?
Mentre a Milano ero l’“umbro”, qui sono l’“italiano”, con tutti gli stereotipi da combattere che questa condizione comporta. Purtroppo l’italiano che conoscono qui è quello che vedono arrivare il finesettimana per il solito “addio al celibato”. Caciarone, in cerca di feste e donne, con scritto in fronte il motto “se posso ti frego”. Quindi guadagnarsi la fiducia degli altri non è facile, sia dal punto di vista lavorativo che relazionale.

Un bilancio a quasi nove mesi dalla decisione di lasciare l’Italia?
Anche se ho una vita che si sta guadagnando la sua familiarità, avverto un senso di precarietà ancora più forte. La mancanza di sicurezza stravolge il carattere e non ti permette di prendere decisioni con tranquillità né di rassicurare chi ti sta intorno, tantomeno la persona che ami, sempre che ci sia…

In conclusione, un pensiero sulla tua Foligno.
Ringrazio Foligno, per me fonte inesauribile di malinconia, irrequietezza, di continua mancanza di qualcosa. Ho deciso di non mettermi comodo e chissà se è questo il modo per trovare qualcosa. Non parlo del mio lavoro perfetto, parlo di qualcosa di vero che rimane fermo mentre tu cammini.

© Gazzetta di Foligno – ENRICO PRESILLA

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