Quello che dobbiamo a Sandita Munteanu
È successo di nuovo. È successo in Umbria, a Foligno. Venerdì scorso, a cinquanta metri dal Piazzale Martiri delle Foibe – un nome che evoca un’altra tragedia – Sandita Munteanu, una donna romena di 38 anni che lavorava come badante, è stata ammazzata con un taglio alla gola e lasciata sull’asfalto in una pozza di sangue dall’ex-fidanzato Virgil Muriaru, 43 anni, anche lui romeno. In realtà la nazionalità non c’entra, o c’entra solo come generico rinvio a determinati modelli culturali e a particolari condizioni di disagio psicologico e socio-economico. Il giorno dopo, infatti, a Vittoria (Ragusa) Salvatore Lo Presti, un italiano di 69 anni, bidello in una scuola, ha ucciso con un colpo di pistola la professoressa Giovanna Nobile di 53 anni, di cui era – dicono le cronache – “segretamente innamorato”. Sandita Munteanu invece sarebbe stata uccisa per non aver corrisposto a insistenti richieste di denaro e forse per gelosia. Il suo omicida, Virgil Muriaru, inseguito dalla polizia messa sulle sue tracce dalla prontezza di un passante, si è a sua volta ammazzato pugnalandosi al cuore sul raccordo Terni-Orte.
In reazione all’evento, sabato 15 giugno un piccolo pezzo di Foligno – una cinquantina di donne e una decina di uomini, richiamati da tre amministratrici (Zampolini, Piccolotti, Mancini) e dalla Casa dei Popoli – hanno voluto manifestare in Piazza della Repubblica il dolore, la denuncia e la rabbia per l’ennesimo femminicidio alle porte di casa, o addirittura dentro casa. Qualcuno, per la verità, trova ambiguo il termine femminicidio. In effetti, per alludere all’uccisione di esseri umani da parte di altri esseri umani il termine appropriato è omicidio. Parlare di femminicidio può sembrare la conferma dell’idea che le donne siano un genere inferiore rispetto agli uomini. Ma l’adozione dell’espressione femminicidio ha il suo fondamento nel fatto che moltissime donne subiscono violenza o sono uccise proprio a motivo della loro appartenenza di genere. Insomma: violate proprio perché donne, anzi femmine.
Questa puntualizzazione non è frutto di un’impressione, ma di una serie impressionante di dati di fatto. In Italia nel 2012 sono state uccise per “gelosia”, “offese alla dignità dei maschi”, “pretese di libertà di comportamento” ben 124 donne, alla media di una ogni tre giorni; nei primi mesi del 2013 il trend risulta addirittura in aumento. Poi ci sono i fenomeni pesantissimi che avvengono in altri paesi: gli infanticidi di bambine in Cina, per la preferenza accordata ai maschi nell’obbligo di limitare le nascite ad un unico figlio per coppia; i rapimenti, gli stupri e gli sfregi in India; la vita negata delle donne afghane; i rapimenti, le violenze, le mutilazioni, i corpi femminili gettati nelle discariche a Ciudad Juarez in Messico, ai confini con gli Stati Uniti, e così via.
Non c’è da fare troppa sociologia per trovare i motivi di una strage tanto insensata all’alba del terzo millennio. Evidentemente ancora oggi convivono e si scontrano nel mondo – direi a macchia di leopardo – esperienze di vita e modelli culturali premoderni, maschilisti, e, all’opposto, modelli basati sul riconoscimento e sul rispetto della differenza di genere. C’è chi pensa ancora che una donna possa essere considerata alla stregua di un oggetto che si possiede, e chi ha smesso di pensarlo anche grazie all’affermazione di una cultura della reciprocità, per cui si sono battute per prime madri, sorelle, mogli. Ciò che si registra oggi è la contemporanea presenza della vischiosità delle vecchie abitudini, per cui picchiare una donna è quasi normale, e l’apertura di una crepa nei convincimenti maschili più autoritari, per cui alla fine si avverte che usare violenza ad una donna sia una cosa sbagliata e, come nel caso di Virgil Muriaru, dopo averlo fatto ci si uccida per espiare la colpa di cui si è consapevoli.
Il discorso, peraltro, potrebbe andare anche più in profondità, nel senso di riconoscere come la violenza sia spesso praticata indistintamente tanto dagli uomini quanto dalle donne. Solo che, tra uomini e donne (autrici talvolta di sottili violenze psicologiche), resta uno squilibrio di forze, un impatto di brutalità, per cui il male che riescono a fare i primi è indubbiamente più devastante, dal punto di vista fisico e morale, di quello che riescono a produrre le seconde.
In questi giorni il governo italiano ha finalmente preso dei provvedimenti che dovrebbero consentire alle forze dell’ordine di intervenire in difesa delle donne sottoposte a violenza anche in assenza di denuncia di parte. È un’ottima cosa, ma culturalmente e socialmente occorrerebbe qualcosa di più. Far diventare il divieto di usare violenza a una donna come un vero è proprio tabù. Nella sua millenaria storia l’umanità ha stabilito i suoi tabù per imporre ai giovani il rispetto degli anziani, per impedire le pratiche sessuali tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle, per decretare la sacralità dell’ospite, ecc.: il tutto per salvaguardare la sua sopravvivenza. Forse è una cosa arcaica: ma il tabù della condanna di ogni forma di violenza alle donne potrebbe aiutare anche gli uomini a ritrovare il senso della propria dignità.
© Gazzetta di Foligno – ROBERTO SEGATORI