Umbria, isola infelice. A meno che…
Le pesanti prospettive per l’economia regionale e le possibili vie d’uscita
L’Umbria è destinata a un declino economico quasi inevitabile. Non occorre aver vinto il Nobel per comprenderlo. La nostra regione si trova dalla parte sbagliata della storia dello sviluppo dei prossimi decenni (ammesso che sviluppo ci sia) e in una collocazione di inferiorità rispetto alle aree limitrofe, più o meno vicine. I dati del quarto trimestre del 2012 diffusi nei giorni scorsi da Unioncamere raccontano della storica arretratezza infrastrutturale, del PIL per abitante inferiore di oltre 16 punti percentuali dalla media del Centro Italia, della produttività del lavoro inferiore di 10 punti rispetto alla media nazionale, del tasso di disoccupazione che, crescendo più che altrove, ha ormai raggiunto la media nazionale. I numeri non forniscono appiglio ad alcuna speranza, nemmeno negli scenari di sviluppo: ci attendono un’ulteriore riduzione del PIL, un calo significativo degli investimenti (-4%) e non riusciremo a recuperare con l’esportazione quanto la domanda interna non assorbirà, anche perché solo le imprese di dimensioni medio-grandi (più di 50 dipendenti) si attendono un incremento sui mercati esteri, ma la maggior parte del tessuto economico umbro è costituito da piccole e micro-imprese, incapaci di affrontare le sfide del mercato globale. L’arretratezza del modello economico regionale e la sua incapacità di affrontare gli scenari globali emergono anche da un ulteriore dato, poco appariscente, ma piuttosto significativo; nella distribuzione del valore aggiunto per settori l’Umbria è sopra la media nazionale in sole due aree: Pubblica Amministrazione e Costruzioni. La riflessione sui dati locali si intreccia inevitabilmente con quella relativa agli scenari planetari, perché mai come oggi qualunque analisi deve tener conto dei due binari: la specificità del locale e la tendenza globale. In un intervento sul supplemento “La lettura” del Corriere della Sera del 17 Marzo, Massimo Gaggi racconta la prospettiva di mutamento dei principali paradigmi economici finora conosciuti, in modo particolare nel rapporto tra sviluppo e lavoro. La storia economica ci dice che fino a oggi ogni innovazione che ha eliminato posti di lavoro ne ha creati altri in settori o luoghi diversi. Ma adesso potrebbe non essere più così. Sembra un concetto astratto, ma ha molta concretezza. L’impiegato della Cassa di Risparmio di Foligno dei ruggenti anni Ottanta non è stato sostituito da un altro impiegato in un altro settore o in un altro luogo, ma dal bancomat e dal remote banking. Marc Andreessen, cofondatore di Netscape, sentenzia che in futuro ci saranno solo due tipi di posti di lavoro: quelli in cui dici al computer cosa fare e quelli nei quali è un computer a dirti quello che devi fare. Un paradosso, forse, ma che rende molto bene l’idea del processo di rapida estinzione a cui sembra condannata la cosiddetta “classe media”, fenomeno che è un po’ effetto e un po’ causa dell’enorme aumento delle disparità economiche al quale stiamo assistendo. L’economia umbra è quindi sottoposta a pressioni negative su tutti i fronti: i vincoli fiscali di un Paese indebitato oltre le sue possibilità, la zavorra di un’amministrazione inefficiente che scoraggia gli investimenti (pensiamo alla lentezza della giustizia), l’arretratezza infrastrutturale rispetto ad altre aree d’Italia, un tessuto imprenditoriale disarmato sul campo di battaglia -cruentissimo- delle sfide globali, l’affacciarsi di nuovi paradigmi economici che bruciano posti di lavoro senza produrne di nuovi. C’è di che scoraggiarsi. Quali strade dunque per la nostra regione? Possiamo semplicemente aspettare che “le cose vadano meglio”? Che l’Europa si riprenda e il ciclo negativo si esaurisca? L’Umbria è parte di un circolo economico depressivo che deve essere spezzato e che non finirà da sé, conviene che ne prendiamo coscienza. Bisognerà darsi da fare in molti campi, con alcune ineludibili priorità.
L’economia sociale. Bisogna dare spazio con ogni mezzo alle forme d’impresa che non hanno come diretta finalità il profitto e che sono le uniche capaci di assorbire quella fetta sempre più ampia di lavoratori che il mondo profit esclude. Si tratta spesso di forme organizzative che, se stimolate, possono divenire autosufficienti e che contrastano quel meccanismo centripeto per il quale la ricchezza si accumula in pochissimi conti correnti, non cambia se intestati a spa o società cooperative, generando non solo ingiustizia economica, ma anche crisi.
Infrastrutture tecnologiche. Dovendo scegliere su quale fronte infrastrutturale investire, piuttosto che puntare sulla movimentazione delle merci (che ormai si producono e si vendono molto lontano da noi), bisognerebbe cercare di eccellere nelle infrastrutture di comunicazione informatica, le strade dalle quali passano -e passeranno sempre più- informazioni, cultura, denaro.
Cultura d’impresa. Sarebbe necessario svecchiare l’insegnamento universitario, specialmente quello di alcune facoltà, che, invece di preparare una generazione dinamica e creativa, formano quei grigi funzionari che non servono più né alle banche né alle industrie. Se ci sono soldi vanno messi lì. Ma dopo essersi accertati che non finiscano ad alimentare i consueti circoli autoreferenziali… Mi piacerebbe veder arrivare insegnanti dagli Stati Uniti, dall’India, dalla Cina, per spiegare ai nostri figli dove sta andando il mondo.
Finanziamento delle idee. Occorre sfruttare nuove forme di incontro tra la domanda di risorse finanziarie per l’attività d’impresa e la disponibilità all’investimento. La crisi del tessuto bancario locale ha prodotto effetti devastanti, ma il modello del dopoguerra non è più riproducibile. Le tecnologie di oggi consentono il superamento dell’intermediazione e permettono di varcare i limiti della prossimità territoriale (crowdfounding). Anche molte attività pubbliche (pensiamo al restauro o alla valorizzazione di opere artistiche e culturali) potrebbero beneficiare di queste forme di finanziamento.
Territorio. Il rischio più grande che corre la nostra bella regione è quello di aver sacrificato la propria bellezza per una ricchezza che non è mai arrivata, di aver perso per sempre la qualità della vita all’inseguimento di false vocazioni. Occorre anteporre a tutto la salvaguardia del territorio, interrompere la cementificazione, migliorare la qualità architettonica. Il sogno-guida potrebbe essere quello di rendere la nostra regione un unico parco e di realizzare la progressiva e totale conversione biologica dell’agricoltura. Insomma un’Umbria VERDE per davvero. Vivere in un luogo più bello, più pulito, più umano può perfino compensare il venir meno di qualche euro nel portafoglio.
I dati economici, inutile illuderci, dicono che siamo destinati a un declino economico quasi inevitabile. Ma nessun destino è scritto prima che si compia e se riusciremo a non lasciare nessuno indietro, avremo raggiunto comunque l’obiettivo, anche senza crescita…
© Gazzetta di Foligno – VILLELMO BARTOLINI
Immagini tratte dal Quadreante Ecnomico di Unioncamere Umbria