Fare nostra la memoria di Dio
San Feliciano martire e testimone del Signore, pietra viva attorno alla quale nasce e si fortifica la comunità
Qual è il valore della fede nella costruzione della società? Questa è la domanda che la festa del patrono dovrebbe far sorgere in noi. Qual è il valore di un’appartenenza, quale l’importanza di un’identità sociale generalmente condivisa ed in particolare quale impronta dia al territorio la presenza di una comunità cristiana, se questa sia più o meno incisiva, più o meno rispettata e riconosciuta come fonte di risorse a vari livelli: tali sono gli interrogativi ai quali la festività di San Feliciano, nella sua dimensione più profonda, chiede di dare risposta. Di altro, penso, ne abbiamo abbastanza. Si può considerare, quella di San Feliciano, la festa che afferma una testimonianza culturale, come espressione particolare delle espressioni più genuine di un popolo, quasi il genio, per così dire, del suo folklore (nel senso più nobile e filosofico del termine). Non si può parimenti tacere la sua notevole valenza di momento socializzante, direi quasi di apertura a nuove relazioni che la comunità attua fra le sue diverse componenti; né va taciuta la forza della festa intesa come espressione di libertà, in quanto interruzione di una realtà quotidiana scandita dal ritmo ad orario continuato del commercio e dall’esigenza del guadagno. Tutto questo, ed altro ancora, può essere la festività di San Feliciano. Ma non vorrei che, sommersa dalla pluralità dei significanti e dei significati, restasse vaga ed indefinita l’essenza unica ed irripetibile della festa: l’onore reso a Gesù in uno dei suoi testimoni. È qui, ritengo, il senso antico e nuovo del giorno in cui una comunità celebra il segno visibile della fede, la traccia tangibile della testimonianza, la pietra viva attorno alla quale nasce e si fortifica la comunità. E la festa è ben altro che fare festa, poiché è partecipazione al riposo sempre attivo di Dio, alla sua stessa signoria sulla Creazione (cfr. il Direttorio su pietà popolare e Liturgia, 2002). La realtà di Feliciano non è infatti quella di essere una devozione, ma un martire nel senso davvero etimologico del termine, cioè appunto testimone, colui che fa memoria ogni momento del suo Signore (la radice mar- dovrebbe, se non erro, essere la stessa della parola ‘memoria’) e quella memoria diventa storia attuale e progettazione del futuro, strumento che consente l’edificazione stessa della Chiesa universale sul sangue di coloro che hanno saputo dire sì e quel sì hanno vissuto fino all’offerta totale. Fare nostra la memoria di Dio: questa dovrebbe essere per noi l’esortazione che, nel silenzio, dovremmo raccogliere nel colloquio con Feliciano. È questa memoria, infatti (e non una devozione in sopravvento sul sacramento), che cambia la storia ed è questa consapevolezza che deve portarci a scegliere la memoria di Dio come scelta per i poveri. Non è stata forse una scelta per i poveri quella di Feliciano evangelizzatore? Non eravamo forse noi quei poveri? Dov’è, dunque, la nostra memoria? Feliciano ha tradotto magnificamente nella sua vita le parole di Gesù agli apostoli: “Fate questo in memoria di me”. Ed è diventato egli stesso vita, atti, gesti, morte e risurrezione di Gesù, annunciando e rivelando l’amore di Dio per ogni uomo, soprattutto per il povero, per l’ultimo. In tal senso Feliciano è patrono, cioè protettore, e riscoprirsi poveri nello spirito – sempre bisognosi della conversione – ed accoglienti è già onorare Feliciano ben al di là di una devozione. Scrive Bartolomeo de Las Casas, missionario domenicano: “Del più piccolo e del più dimenticato Dio ha una memoria molto fresca e viva”.
© Gazzetta di Foligno – Guglielmo Tini