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Care ci costano: Province o Regioni?

Avevamo capito che andavano ridotte le Province per far risparmiare l’erario pubblico. Ma ora veniamo a sapere che gli sprechi arrivano soprattutto dalle Regioni. Queste, previste dalla Costituzione come strumento di decentramento e garanzia di autonomia politico-amministrativa, hanno finito col costare troppi milioni di euro – gli oltre 1000 consiglieri regionali costano agli italiani 743.000 euro ciascuno – e col provocare inchieste della magistratura verso tutti gli schieramenti politici che le governano, ivi inclusa la “sanitopoli” umbra. Il malcostume, gli sperperi e l’arroganza sono diventati insopportabili in una situazione di crisi economica e sociale così dura. Le cause vengono da lontano. Le Regioni sono state, forse per l’onnipresenza dei partiti, uno degli strumenti della diffusione dei metodi affaristici e della corruzione anche a livello locale, spesso senza dare alle comunità quell’esempio di buon governo e di efficienza auspicato dai sostenitori della riforma regionalistica. È vero che il quadro costituzionale – la regione priva di una precisa identità; la separazione tra autonomia politica e amministrativa e responsabilità finanziaria – può aver agevolato a lungo una sorta di deresponsabilizzazione del governo regionale, che non aveva strumenti adeguati per farsi valere di fronte ai problemi della società, ma è anche vero che il federalismo e la riforma del titolo V della Costituzione del 2001 non hanno apportato tutti i miglioramenti sperati e, visti certi esiti, abbisognano almeno di una coraggiosa lettura autocritica. Intanto la Conferenza delle Regioni è corsa ai ripari per definire una serie di tagli ai costi della politica – come la diminuzione dei consiglieri, degli assessori e dei loro stipendi, la riduzione delle spese dei gruppi e del loro finanziamento posto sotto il controllo della Corte dei Conti – da affidare al governo Monti. E se si rivedesse anche il prezzo della politica, riducendo quel doppio finanziamento pubblico dei partiti – a Roma con i rimborsi elettorali, a livello locale con contributi fissi annuali ai gruppi presenti nei diversi consigli elettivi – che a tutto serve meno che a finanziare la politica, che oggi i partiti fanno sempre di meno? E se si intervenisse anche per frenare l’abuso delle risorse pubbliche, combattere la ripresa dei fenomeni di corruzione nei rapporti tra la politica e l’economia, porre dei limiti al carrierismo dei politici? Lungi da noi generalizzare su politica e partiti, o qualificare gli enti locali come luoghi di corruzione e di spreco. L’Umbria non è così, sostengono Brega e la Marini, perché gli stipendi dei politici sono nella media e la regione si è dotata di “norme rigorose che impediscono un utilizzo dei fondi pubblici non collegato all’attività politica”. Ne prendiamo atto, ma altri conti non tornano: la spesa pubblica in questo primo decennio è cresciuta tanto di più rispetto alla media nazionale e l’alto il numero di dipendenti (e di ben pagati dirigenti) ci pone al primo posto nell’Italia mediana, mentre la sussidiarietà e la riforma degli “enti endoregionali” faticano a decollare. L’Umbria è anche questo.

© Gazzetta di Foligno – ANTONIO NIZZI

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