Un’idea per l’area del vecchio Ospedale
Riceviamo da Fausto Gentili, direttore dell’Officina della Memoria, una singolare proposta, meritevole di essere discussa. La presentiamo nei passaggi fondamentali.
Un ospedale è un ospedale. E’ un oggetto importante: per demolirlo devi prima averne fatto uno migliore un po’ più in là. Occupa una porzione –non troppo lunga, se abbiamo fortuna- del tempo della nostra vita, e una porzione dello spazio urbano: una volta al centro delle città, oggi più spesso nella loro immediata periferia, giacché all’ospedale qualche volta devi arrivarci in fretta e i centri storici delle città mediamente civili sono in genere preclusi al traffico privato. Ma un suo spazio lo occupa anche nella memoria di ciascuno di noi. Uno spazio emotivo carico di risonanze, perché lì abbiamo vissuto una parte dei momenti peggiori -ed anche di quelli migliori, perché qualche volta ci è andata bene- della nostra esistenza, e da quei momenti non ci separiamo neanche volendo.
Un bulldozer è un bulldozer, fa il suo lavoro. Demolisce. Anche l’operaio che lo manovra fa il suo lavoro: aziona il bulldozer e –se ci sa fare- butta giù esattamente quello che gli hanno detto di buttare giù, e lascia in piedi tutto il resto. Senza danni collaterali. Lavorano –il bulldozer e l’operaio- alle dipendenze di qualcun altro, qualcuno che sa che cosa stanno facendo e perché. Loro no. Loro lavorano e basta, davanti a un pubblico di cittadini che a volte tirano dritto perché hanno fretta, a volte si fermano a guardare quella forza tranquilla in azione. L’uomo e la macchina. Senza emozioni particolari: per sentire il pianto della scavatrice devi essere almeno un poeta, ma se non sei Pasolini la scavatrice non piange. E poi, che c’è mai da piangere ?
Una città è una città. Sembra ferma e si muove. Resta uguale e cambia. Una città non è un insieme di edifici: puoi sgombrare tutte le persone e lasciare solo gli edifici, e certo capirai qualcosa (la gerarchia degli spazi, i diversi stili di vita, le abitudini di chi ci viveva) ma non avrai veramente compreso la città. Oppure puoi raccogliere tutte le persone –i cittadini- in uno stesso luogo (uno stadio, una grande piazza, un campo di concentramento) ed interrogarli: anche così capirai qualcosa ma non l’essenziale. Forse una città è un insieme di storie in uno spazio condiviso: le storie che le persone che la abitano si sono raccontate e continuano a raccontarsi. E molte storie, quasi tutte ormai, cominciano all’ospedale.
Non conosco il progetto di utilizzo degli spazi occupati dal vecchio ospedale. So che in generale su questi grandi interventi nel cuore delle città è bene vigilare: possono risolversi a beneficio dei pochi che li gestiscono, oppure promuovere nuove opportunità per l’insieme della comunità. E non conosco –se non alla lontana, e comunque solo alcuni- gli undici imprenditori che lì stanno intervenendo. Il sito internet del loro consorzio (Koinon spa) non dice quasi niente. Koinon è una parola greca, significa “lega”, “associazione” (la Lega macedone, quella cretese, ecc.). Prima ancora, però, se non sbaglio, koinon è un aggettivo, e significa “comune”. Così, non so quanto volontariamente, la “lega” degli undici imprenditori ci ricorda che quello spazio è “comune”, appartiene a tutti. Anche se l’hanno comprato loro. Perché là dentro sono passate le storie di tutti.
Un memoriale è un memoriale. Lo si fa per ricordare qualcosa o qualcuno a qualcun altro. Quelli di prima a quelli che vengono dopo. Per lo più i memoriali parlano della fine di qualcuno, della sua morte. Perché in quelle morti c’è una lezione che si ritiene gli altri dovrebbero conservare. Credo che invece, questa volta, il pensiero più comune tra i cittadini che passano lì davanti sia: li dentro io ci sono nato. Non dovrebbe essere difficile, allora, attraverso l’archivio dell’ospedale, risalire ai nomi di tutte le bambine e i bambini che, in centocinquant’ anni, sono nati lì dentro. Ecco, fossi il dodicesimo socio di koinon spa farei questa proposta: dirottare una piccola parte dei profitti che lì si realizzeranno (solo un po’, diciamo quindici o ventimila euro, l’equivalente di sette-otto metri quadri) in favore della bellezza, della vita, della memoria e dell’arte contemporanea. Promuoverei un concorso tra giovani artisti per un monumento pubblico, un memoriale, da realizzarsi proprio lì, dove oggi la scavatrice piange e non piange, con i nomi di tutti – ma proprio tutti- i cittadini la cui storia è cominciata lì dentro, e da lì dentro è uscita per mescolarsi con le storie degli altri.
© Gazzetta di Foligno – FAUSTO GENTILI