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Intervista al vescovo Gualtiero Sigismondi alla vigilia dell’assemblea diocesana

Il tema dell’assemblea diocesana 2011 è quello della comunione ecclesiale, una questione che le sta particolarmente a cuore… Perché è così importante?
Sin dal giorno del mio ingresso in diocesi ho indicato nella comunione e nell’ascolto della Parola il binario sul quale avrei cercato di far camminare la nostra Chiesa diocesana. Dopo tre anni di episcopato ritengo che questo binario non debba essere abbandonato.
Ho ripetuto fino a stancare che “la preghiera è la condizione della concordia e che la concordia è il presupposto della Pentecoste”.

Quindi lo Spirito non può operare senza la comunione…
Come vescovo sento che incombe su di me il compito di tenere unito il gregge affidato alle mie cure pastorali. Sono il primo ad avvertire la resistenza a camminare insieme, sono il primo a scorgere i segni della dispersione, ma sono anche il primo a gustare la bellezza delle esperienze di comunione che incontro visitando la nostra diocesi.

Ha parlato di “segni di dispersione” sui quali il vescovo deve vigilare. Quali vede nella nostra Chiesa?
L’anno passato mi sono soffermato a riflettere sulle “rughe” della Chiesa, quest’anno ho fissato l’attenzione sulle “tarme” che corrodono il tessuto della comunione ecclesiale. Nel linguaggio patristico la tunica di Cristo, tessuta tutta d’un pezzo, è splendida immagine della Chiesa. È a partire da questa immagine che sto tentando di identificare le “tarme” più insidiose, che depongono le uova al buio. Una di esse è la riluttanza ad avere un medesimo sentire, che non vuol dire bandire la diversità, ma mettere un freno alla confusione delle lingue. Senza unità d’intenti non ci può essere unità d’azione. Un’altra “tarma” è rappresentata dalla diffidenza a riconoscere che vi sono diversità di carismi e che a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito. È una diffidenza latente che lacera il tessuto del Corpo ecclesiale.

Ha detto che unità d’intenti non vuol dire bandire la diversità. Molti pensano che la Chiesa sia un luogo dove non c’è spazio per discussioni ed opinioni diverse e che la comunione si esaurisca nell’obbedienza alla gerarchia. È così?
Ho riflettuto a lungo, in queste ultime settimane, sul senso dell’obbedienza a partire da una ricerca lessicale. Ho trovato come il verbo “disporre” torni con insistenza nelle pagine del Messale. È un verbo di una bellezza commovente perché dice il primato della grazia ed il rispetto che il Signore ha della nostra libertà.
Per “disposizione misteriosa” il Signore volge a provvidenza la libertà della Chiesa! Quanto questo sia vero lo lascia intendere la stessa Preghiera di ordinazione di un vescovo, nella quale si chiede al Padre che l’eletto, “con la forza dello Spirito del sommo sacerdozio, disponga i ministeri della Chiesa secondo la volontà di Dio”.
L’esercizio della virtù dell’obbedienza, che nella prassi deve essere un’umile obbedienza alla Chiesa, secondo Henri de Lubac costituisce “il punto più inaccessibile ad un’intelligenza non ancora trasformata dallo Spirito Santo”.
La difficoltà sorge, come diceva Sant’Ignazio di Loyola, quando si guarda “a chi” si fa obbedienza, piuttosto che “per chi”.

Non pensa che per camminare nella comunione la Chiesa debba incentivare un maggiore spirito sinodale? Funzionano gli organismi di partecipazione previsti dal Concilio?
Questa è una meta da raggiungere con sollecitudine! L’esperienza della visita pastorale mi sta mostrando che, di fatto, gli organismi di partecipazione funzionano solo in pochissime parrocchie. Non funzionano là dove il parroco applica il principio: “sarete miei amici se fate quel che vi comando”; ma non funzionano nemmeno là dove tali organismi hanno l’ambizione di adottare la logica parlamentare della maggioranza, piuttosto che il criterio sinodale della convergenza.

Per raffigurare la mancanza di spirito di condivisione, si usa l’espressione: “ognuno pensa alla propria parrocchia”. Ormai la visita pastorale è al giro di boa, è davvero così difficile la comunione nella Chiesa particolare di Foligno?
Talvolta ho l’impressione che la nostra Chiesa particolare sia simile ad un acquedotto che disperde lungo il suo corso buona parte delle grandi energie che trasporta. E la dispersione di energie alimenta la frammentazione, creando l’illusione di essere un solo Corpo senza avere “un cuore solo e un’anima sola”.

Come si chiudono le falle di questo acquedotto?
Camminando insieme, uniti a priori in tutto ciò che è essenziale, convergendo con serena determinazione anche nell’opinabile, senza che le legittime “visioni” degenerino in “divisioni”.

L’essere in comunione “con se stessa” non può bastare ad una Chiesa che si definisce “cattolica”, cioè universale. Con chi la Chiesa è chiamata a sperimentare la comunione per essere veramente missionaria?
L’apertura alla Chiesa universale è un ministero che mi vede in prima linea. Come la comunione gerarchica con il vescovo è principio fondante per l’esercizio della triplice funzione profetica, sacerdotale e regale dell’intero popolo di Dio, così la comunione gerarchica con il Successore di Pietro è principio costitutivo per l’esercizio dell’autorità episcopale. È per questa ragione che non faccio cadere una sola parola del magistero di Benedetto XVI e cito di frequente gli insegnamenti del Papa, che ci aiutano a tenere aperto lo sguardo sulla Chiesa universale, la quale “non ha confini da difendere, né territori da occupare, ma una maternità da allargare”.
Per rendere più profondo il “respiro” cattolico della nostra diocesi occorre rivisitare i moduli ordinari della pastorale, che vanno ripensati tenendo conto del fatto che “la Chiesa dovrebbe aprire una sorta di cortile dei gentili dove gli uomini possano in qualche maniera agganciarsi a Dio”. Nel cuore della Chiesa deve sempre bruciare un fuoco missionario, che non è una realtà esteriormente aggiunta alla fede, ma è il dinamismo della fede stessa. “La Chiesa – osserva Benedetto XVI – è missionaria nella sua origine; essa non ha una missione, ma è in se stessa missione”.

La predilezione per gli ultimi, la vicinanza ai bisognosi sembra una delle chiavi per rendere visibile la comunione nel mondo; la carità è frutto della comunione o ne è la sorgente?
La carità è la linfa vitale della comunione e la comunione è il frutto maturo della carità. La comunione manifesta la “fantasia della carità”. Ma la carità per essere autentica, priva di ipocrisia, deve riscoprire il primato del rendimento di grazie, premessa necessaria di ogni gesto di condivisione.

La comunione non è un valore solo ecclesiale. Oggi sembrano prevalere però i valori individuali. Perché anche la società ha bisogno di comunione?
La società ha bisogno di comunione perché si può reggere solo sulle solide basi della ricerca del “bene comune”. Urge spendersi nella formazione di coscienze cristiane mature, cioè aliene dall’egoismo, dalla cupidigia e dalla bramosia di carriera, coerenti con la fede professata, conoscitrici delle dinamiche culturali e sociali del nostro tempo, capaci di assumere responsabilità pubbliche con competenza professionale e spirito di servizio.

Il prossimo 25 settembre Cristiano Antonietti verrà ordinato presbitero della nostra Chiesa diocesana. Che cosa rappresenta questo per il suo pastore?
È un evento ecclesiale che giunge provvidenziale per la nostra Chiesa particolare ed anche per me, che ho appena celebrato il XXV anniversario di sacerdozio. Non poteva esserci dono più grande!
Avverto quanto sia carico di responsabilità il gesto apostolico dell’imposizione delle mani; mi consola la consapevolezza che il Signore, nella sua audacia, nasconde uno “straripante tesoro” nella fragilità dei “vasi di creta” dei ministri ordinati.

© Gazzetta di Foligno – VILLELMO BARTOLINI

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