Pianeta Giove
Le falle del “modello umbro” di ricostruzione.
La notizia che la frazione di Giove, a Valtopina, sia stata messa tutta sotto sequestro dalla Guardia di Finanza di Perugia, potrebbe mettere in dubbio il tanto propagandato “modello umbro” della ricostruzione post-sismica, o, quanto meno, dovrebbe far sorgere qualche sospetto, a chi indaga, e la domanda se il fenomeno è limitato a un fatto sporadico o se è stato, invece, un modo di operare, non tanto generalizzato, ma alquanto diffuso.
La legislazione, troppo chiara per molti versi, spesso disattesa sia dai controllati sia dai controllori, per le lacune, non volute ma spesso non colmate, appena approfondita, rivela aspetti che lasciano, e sicuramente hanno lasciato a qualcuno, facile gioco nel raggirarla, interpretarla o male applicarla.
Guadagni anche troppo facilitati da un aumento indiscriminato e non giustificato dei prezzari regionali, il mancato controllo (ad eccezione, ma non sempre, dei progetti estratti) dei contenuti qualitativi, architettonici e strutturali della progettazione, hanno determinato una povertà di interventi spesso senza alcun riferimento con le normative antisismiche e con gli interventi minimi imposti dalla normativa stessa.
Eppure, senza la pubblicità che ha subito la frazione di Giove, esistono moltissimi altri casi nei quali sono venuti meno la chiarezza progettuale, la giusta interpretazione delle norme e, soprattutto, i giusti interventi che, anche se affidati a imprese con tanto di qualificazione certificata e a direttori dei lavori con provata esperienza, sono risultati privi di ogni riferimento alle regole del buon costruire.
È il caso di interventi su edifici che, demoliti, sono stati ricostruiti in cemento armato, ma con calcestruzzo di scadente qualità e di bassissima resistenza.
È il caso di interventi, anche su beni culturali, affidati, forse per strane coincidenze politiche, a strutture non organizzate in vere e proprie imprese edili, ma a organismi istituzionalizzati, senza certificazioni e senza capacità da parte delle maestranze di poter restituire interventi eseguiti a “regola d’arte”.
È il caso di interventi che, se pur ben realizzati, sono stati ampiamente compensati e remunerati oltre il loro stesso valore.
È il caso di interventi non realizzati o mal realizzati, ma ugualmente ampiamente compensati e remunerati.
È il caso di interventi che, a causa del fallimento delle imprese e di una sovrapposizione legislativa tra Legge Fallimentare e mancato rilascio del Documento Unico di Regolarità Contributiva, non potranno essere mai terminati.
È il caso di interventi in cui figure professionali, quali il progettista, il direttore dei lavori e il presidente del consorzio e di Unità Minime di Intervento, coincidevano, dando luogo a strane situazioni economiche, dove il rilascio di certificati di pagamento non poteva essere controllato dal committente, in quanto era il direttore dei lavori che si configurava come tale.
È il caso di interventi di enormi dimensioni e oggetto di enormi contributi appaltati a imprese senza qualificazione, mai iniziati, solo per poter accedere alla prima tranche di contributi e pagare il totale delle spese tecniche relative a progettazione e direzione lavori.
Purtroppo la puntualizzazione di tali interventi, che non può considerarsi esaustiva della casistica, da non generalizzare e neanche da sottovalutare, deve essere considerata, per ogni caso specifico, un danno, forse irreversibile, al nostro patrimonio culturale ed economico. L’esportazione di questo “modello” dovrà essere rimandata fino a nuova stesura e rivisitazione delle norme!
© Gazzetta di Foligno – CLAUDIO TRECCI