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Le religioni nello spazio pubblico

Il dibattito aperto sulla laicità pone un dilemma: o si intende la democrazia solo come un insieme di regole e di procedure razionali, e allora resiste la nozione moderna di laicità, oppure, se si ritiene che la democrazia si fondi su valori come quello del bene comune, quella nozione diventa problematica. E difatti è in atto un ripensamento tra politica e religione, tra etica e politica e, di conseguenza, una ridefinizione della stessa laicità. Alla distinzione tra pubblico e privato c’è chi preferisce oggi quella tra sfera pubblica e sfera politica. La prima è il campo delle attività umane, dove si coltivano e si confrontano i valori fondamentali che interessano ogni uomo. La sfera politica, invece, comprende quelle attività umane che esigono forme di intesa tra quanti hanno concezioni diverse della verità e del bene. Ne consegue che il discorso religioso, in quanto riguarda l’uomo, fa parte di diritto della sfera pubblica, e la ragione pubblica – contrariamente al principio di separazione – non può fare a ameno del discorso religioso. Ecco perché il rapporto tra fede e cultura è oggi più vivo di ieri, e intriga anche i non credenti. Rawls e Habermas, ad esempio, ritengono che i cittadini possono portare nello spazio pubblico le loro convinzioni religiose, ma, quando arrivano alla sfera politica (dove si legifera), i credenti devono fornire altre ragioni comprensibili anche dal non credente; così pure l’agnostico o l’ateo, quando si fanno le leggi, devono portare ragioni che possano essere comprese anche da quanti non condividono le loro ideologie. Ecco allora “la cifra della nuova laicità: lo Stato si pone come equidistante da tutte le forme di argomentazione, quale che sia il loro punto di partenza, religioso o meno” (Stefano Zamagni). Tutti, credenti o no, hanno diritto a tradurre le ragioni ancorate ai loro valori di fondo in ragioni politiche. La religione, insomma, non è “un affare privato”. Le conseguenze per i cattolici non sono di poco conto. Quando il discorso religioso entra nella sfera pubblica, esso deve saper argomentare e offrire ragioni a sostegno delle proprie richieste, ragioni comprensibili (anche se non necessariamente condivise) pure dagli altri. Non basta limitarsi a rispondere alle critiche o ad affermare i propri principi “non negoziabili”, occorre fornire anche ragioni e direttive di azione, occorre quella che si chiama la mediazione politica. Due rischi vanno comunque evitati: il pensiero liberale non è antagonista della visione cristiana della persona e della storia, ma la sua concezione della libertà in termini individualistici è troppo poco per il cristianesimo; il cristianesimo, d’altro canto, non può lasciarsi strumentalizzare da quanti vedono – da destra o da sinistra – solo la funzione sociale della religione. Nell’uno e nell’altro caso, il cristianesimo non è riducibile ad una religione civile. “Atei devoti” e cristianesimo “debole” – pur meritevoli di ascolto – poco si adattano a quella eccedenza della fede cristiana che non si identifica mai con nessun ordine terrestre, mai sacralizzabile, mai definitivo di fronte a Colui che fa nuove tutte le cose.

© Gazzetta di Foligno – ANTONIO NIZZI

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