L’economia dell’Umbria
Ne parliamo con Riccardo Bonci, responsabile dell’Ufficio Studi della Filiale di Perugia della Banca d’Italia.
Il 10 giugno scorso la Banca d’Italia ha presentato la pubblicazione “L’economia dell’Umbria”, che illustra e analizza i dati dell’economia regionale nel 2010. I media ne hanno abbondantemente parlato e la politica è stata costretta a confrontarsi con numeri non certo incoraggianti. Pochi sanno, però, che dietro la stesura del documento ci sono anche l’intelligenza e la professionalità di un nostro giovane concittadino, il dottor Riccardo Bonci. Lo abbiamo incontrato per leggere meglio tra le righe del rapporto. Ci ha colpito anche la sua storia: una testimonianza di come la vera risposta alla crisi, anche economica, non risieda solo nelle grandi scelte politico-economiche, ma nasca in primo luogo nel cuore dell’uomo, nel suo desiderio di essere utile a se stesso e agli altri, nella sua capacità di impegno e sacrificio.
La Banca d’Italia è una delle istituzioni più prestigiose del nostro paese. Qual è stato il suo percorso per approdarvi?
Dopo la laurea in Scienze statistiche ed economiche a Siena, ho lavorato presso il Ministero del Tesoro, l’Istat, infine ho superato la relativa selezione pubblica e sono stato assunto al Servizio Studi della Banca d’Italia nel 2000. Ho fatto un’esperienza di studio negli Stati Uniti, poi nel 2007 ho avuto la possibilità di essere distaccato presso la Banca Centrale Europea a Francoforte, per occuparmi di politica monetaria.
Nel 2009 è nato il nucleo per la ricerca economica presso la sede di Perugia e ho deciso di ritornare in Umbria: ora dirigo l’Ufficio Studi della Filiale di Perugia della Banca d’Italia, l’unica in Umbria dopo la chiusura di Terni.
A Foligno quale scuola ha frequentato?
Mi sono diplomato al Liceo Scientifico nel 1992. È stata la scuola più dura che abbia frequentato, Università compresa. Ancora sogno con terrore le interrogazioni di storia. Sono arrivato all’Università con ottimi “fondamentali” e questo mi ha permesso di affrontare con fiducia il mio percorso successivo. Oggi, invece, quando mi trovo ad avere a che fare con gli studenti universitari, spesso mi accorgo di una preparazione molto meno solida.
Nel commentare il Rapporto sull’economia dell’Umbria la maggior parte dei giornali ha sottolineato i dati sul pubblico impiego. È d’accordo?
Sicuramente la spesa per il personale di Regione e Province è uno dei dati più eclatanti contenuti nell’ultimo rapporto. Sui cittadini umbri, per le spese per il personale sostenute dalla Regione, grava una spesa pro-capite più che doppia rispetto ai cittadini delle altre regioni a statuto ordinario. I dipendenti delle Province, invece, ci costano il 60% in più. Più virtuosi sono i Comuni che superano la media solo del 7%. C’è un evidente problema di sovradimensionamento degli organici, riconducibile solo in parte alla dimensione relativamente ridotta dell’Umbria. D’altra parte, in un’ottica di breve periodo, questa forte presenza del pubblico impiego ha storicamente svolto un importante ruolo di ammortizzatore sociale, anche se questo fattore è parzialmente venuto meno nell’ultima crisi. Il comparto sanitario presenta invece un indice di efficienza molto alto, tanto che i costi della Sanità umbra sono uno dei punti di riferimento per stabilire i costi standard introdotti dalle leggi sul federalismo.
Nonostante il peso del settore pubblico, nel biennio della crisi il PIL umbro è sceso più che nel resto d’Italia. Quali sono i fattori di debolezza del nostro settore produttivo?
I problemi strutturali della nostra economia sono tanti e molti sono gli stessi delle imprese italiane in generale. La dimensione aziendale e il modello di gestione delle imprese è uno di questi. In Umbria prevale di gran lunga il modello familiare, in cui non c’è distinzione tra proprietà e management. Spesso il cambio generazionale avviene all’interno della stessa famiglia, indipendentemente dalle reali capacità e inclinazioni dell’interessato, con conseguenze che possono essere traumatiche fino a comportare l’erosione del capitale accumulato dalle generazioni precedenti. La ridotta dimensione e capitalizzazione delle imprese, inoltre, le rende poco capaci di innovare e di affrontare i mercati esteri. Non a caso le aziende che mostrano segnali di ripresa sono quelle che avevano fatto investimenti negli anni precedenti e quelle aperte ai mercati internazionali.
Nel Rapporto confrontate l’Umbria con altre 33 regioni europee dalle caratteristiche simili. Quali sono i risultati?
Le nostre aziende sono quelle che investono meno in Ricerca e Sviluppo. Questo si lega alla questione della scarsa dimensione di cui abbiamo detto prima. Le istituzioni pubbliche compensano in parte questo deficit, ma sono interventi poco incisivi: è stato dimostrato che in Umbria è particolarmente difficile che la ricerca condotta a livello universitario abbia ricadute positive sul tessuto produttivo locale. Inoltre le imprese umbre non sono state capaci di agganciarsi in modo dinamico alla ripresa mondiale. L’export non manca, ma si concentra sui beni intermedi, con basso valore aggiunto, bassa intensità tecnologica e bassa qualificazione del personale impiegato. Ci sono pochi laureati nelle aziende umbre e spesso non sono impiegati secondo le qualifiche del loro titolo di studio.
Eppure i laureati che non trovano occupazione sono numerosi. Non è un paradosso?
In realtà sono poche le aziende che hanno bisogno di personale molto qualificato. La gran parte delle imprese sono micro-realtà che lavorano in sub-fornitura, seguendo le specifiche tecniche del committente. Svolgono per lo più la fase di realizzazione del prodotto con manodopera a basso grado di istruzione. D’altra parte anche i giovani laureati hanno una scarsa propensione a lasciare il comodo “nido” familiare per esperienze che possono dare valore aggiunto al proprio titolo di studio. Periodi di lavoro o di studio all’estero possono fare la differenza anche agli occhi delle aziende, poiché sono segno di disponibilità all’impegno e capacità di affrontare situazioni nuove.
Uno dei settori che faticano di più è quello dell’edilizia. Le grandi opere pubbliche, però, nella nostra regione non mancano, potranno fare da volano per questo comparto?
La piccola dimensione delle imprese locali è un freno anche in questo senso. Solo imprese di un certo livello riescono a concorrere per i grandi appalti pubblici e alle imprese locali restano solo le briciole. Inoltre l’edilizia sconta ancora la sovraccapacità produttiva generata dalla ricostruzione.
Nel Rapporto si parla di “lievi segnali di ripresa”. I dati però non lasciano molto spazio all’ottimismo.
La Banca d’Italia parla attraverso i dati. Dietro ciascun numero del Rapporto ci sono molteplici verifiche. Questo ci permette di essere quanto più possibile oggettivi e super partes. Tutti lo riconoscono. A partire da un’analisi realistica e non faziosa dei dati si può giudicare il passato e progettare il futuro.
Quali sono, secondo lei, gli ambiti da cui è possibile ripartire per dare nuova competitività alla società della nostra regione?
Metterei al centro l’innovazione e l’internazionalizzazione delle aziende. La creazione di poli di imprese potrebbe creare una massa critica sufficiente per investire in innovazione e per esplorare nuovi mercati di sbocco. Anche il pubblico può favorire questo processo, soprattutto creando una cornice adatta, fatta di legalità, semplificazione normativa e infrastrutture adeguate. Un’altra leva su cui sarebbe importante agire è quella della partecipazione delle donne al mercato del lavoro, che è ancora molto bassa. Le politiche attuali sono insufficienti per risorse complessive, ma soprattutto sono frammentate. Ci si limita a piccole erogazioni a pioggia, che non incidono sul problema in profondità. Invece le donne e i giovani sono fattori importanti in tutti paesi avanzati. C’è molto da fare, certo, ma le energie per farlo, se ben valorizzate, non mancano.
© Gazzetta di Foligno – MAURO PESCETELLI