Più condivisione quando la vita finisce
Fino a non molto tempo fa la preghiera accompagnava la morte. In punto di morte non si era mai soli. Morire era pregare insieme: certi, il moribondo e i familiari, di essere in compagnia di Dio. Lo stesso dolore diventava preghiera condivisa da parenti e vicini. Oggi la “buona morte” pare scomparire, sostituita spesso da sale di rianimazione asettiche che separano il corpo dall’anima, il moribondo dai familiari, la morte dalla fiducia nell’aldilà. Anche la morte si secolarizza, diventa un semplice fatto fisico, un evento di solitudine. Non esiste più un contatto diretto con la morte. È raro che i ragazzi vedano morire in casa i vecchi e i malati, che parlino con i moribondi, che partecipino al lutto. Le stesse onoranze funebri hanno sostituito ormai da tempo la gratuità e la solidarietà delle confraternite. Ma la morte lasciata nelle sole mani della medicina rischia di non potersi più confrontare con le domande del senso del vivere e del morire, della sofferenza, del desiderio insopprimibile di immortalità. D’altro canto, è un non senso chiedere alla scienza il perché del dolore e della morte. Alla scienza si chiede di ridurre lo strazio, di lottare per la vita, di salvaguardare la dignità della persona. Grazie alla tecnica si prolunga la longevità biologica, ma non si soddisfa quel desiderio invincibile di vita ulteriore che è nel cuore di ogni uomo. Quel che è fisico – ci dice la scienza – quello che è biologico non può durare per sempre, la morte è inevitabile ed è naturale per questo. Non c’è lo scandalo della morte per la scienza. Ma il cristiano sa che l’uomo non è solo corpo – perché è anche spirito che non può morire – e per questo non può accettare la morte, se non intendendola come il deporre un corpo che non è fatto per l’immortalità. Di più, il cristiano non si affida all’idea dell’immortalità, quanto piuttosto alla rivelazione della resurrezione. Ma non è sulla morte che vogliamo riflettere, quanto segnalare nuovi orizzonti di servizio e di volontariato che, se non li farà la Chiesa, non possiamo attenderli dai servizi sociali, abilitati a operare su altri campi e con altre competenze e professionalità. Uomini e donne sempre più anziani avranno maggior bisogno di vicinanza, di amicizia e di conforto, di solidarietà e di gratuità. Ma anche, e soprattutto, di preghiera e di speranza. È la solitudine a far paura quando si avvicina la morte. La Chiesa, che nel passato ha saputo farsi carico della “buona morte” con una trama operosa di umana solidarietà, è chiamata ora a dilatare la sua attività pastorale su questo fronte che tocca la vecchiaia, la malattia terminale, la morte. L’allestire un funerale è diventato oggi una professione che offre un servizio tutto compreso, ma la liturgia esige che le esequie religiose siano occasione di catechesi pasquale e incontro della comunità dei credenti con quanti sono nel dolore. Questo incontro, che non è possibile nella camera mortuaria dell’ospedale o nella casa del defunto, la Chiesa dovrebbe promuoverlo il più possibile. Lo esige lo stesso carattere comunitario della resurrezione che il cristianesimo annuncia.
© Gazzetta di Foligno – ANTONIO NIZZI