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Dove sono gli adulti

Intervista a don Franco Valeriani
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anti parlano dei giovani, spesso per lamentarsi. Pochi sono quelli che riescono a star loro vicini, a condividerne passioni e fragilità. Il nome di don Franco, nella nostra città, è legato soprattutto alla comunità “La Tenda”, un’esperienza pionieristica che nasceva appunto dalla passione per i giovani. Per quelli più vicini, a cui ha dato l’opportunità di mettere alla prova la fede in un opera di carità; per quelli più lontani, che da quest’opera sono stati accolti. Gli chiediamo di raccontarci come, dal suo particolare punto di osservazione, ha visto cambiare i giovani della nostra città. Non possiamo però non partire dall’origine del suo impegno coi più bisognosi.
La Tenda nasce nel 1980, come servizio di accoglienza diurno. Non era ancora una comunità: accoglievamo i ragazzi in difficoltà, che poi tornavano a casa.
Chi erano le persone con cui ha iniziato?

Un gruppo giovani di S. Eraclio, in particolare Lola e Rolando Buono. Rolando era un mangiapreti. Dopo la conversione lui e sua moglie hanno iniziato a fare il catechismo e si sono accorti che alcuni, soprattutto quelli con problemi familiari, erano problematici e non riuscivano ad inserirsi nella vita della comunità. Così si sono presi l’impegno di radunare questi ragazzi che erano ai margini. Erano gli anni ’70.
Come siete arrivati ad accogliere i tossicodipendenti?

Nel 1979 a Foligno ci sono stati i primi morti per overdose. Allora, insieme al gruppo di amici di S. Eraclio, ci siamo impegnati su questo fronte. Avevamo una casa della Diocesi: con entusiasmo accoglievamo questi ragazzi e organizzavamo alcune attività.
Che nesso c’era tra il vostro impegno sociale e l’appartenenza alla Chiesa?

La nostra scelta è stata allora ed è tuttora di natura essenzialmente religiosa: essere al servizio dei più poveri. A quei tempi i più poveri erano i tossicodipendenti e gli emarginati.
È ancora così?

Oggi la struttura della cooperativa non permette più la baldanza ingenua delle origini. Ma è rimasta la caratteristica di stare vicini alle persone. Alcune delle cooperative che sono nate con noi, invece, hanno preso altre vie avvicinandosi ad esperienze profit.
Come era strutturata la comunità?
Seguivamo il metodo del gruppo Abele di Torino: piccole comunità di vita familiare e di condivisione. Io stesso vivevo nella comunità, insieme ad alcuni ragazzi delle varie parrocchie in cui sono stato. Condividendo con i nostri ospiti la vita di tutti i giorni, facevamo vedere loro che esiste un modo di vivere diverso da quello a cui erano abituati, che è possibile vivere i valori in cui crediamo: amicizia, solidarietà, accoglienza, onestà…
Chi erano i volontari che la aiutavano?

Erano i ragazzi che avevano fatto delle esperienze di condivisione con me. Nelle parrocchie in cui andavo c’era sempre un gruppo di giovani che si coinvolgeva di più. Alcuni di loro hanno deciso di dedicarsi all’accoglienza dei tossicodipendenti. Certo, all’inizio eravamo molto ingenui ed eccessivamente ottimisti. Pensavamo che i tossicodipendenti potessero essere visti come degli amici da aiutare, non avevamo ancora capito gli effetti distruttivi degli stupefacenti.
E i tossicodipendenti, da quali ambienti provenivano?

Agli inizi erano tutte persone che venivano dal mondo dell’impegno politico. Erano molto ideologizzati: venivano dall’estrema sinistra oppure da un’esperienza deludente di Chiesa. Molti pensavano che la droga avesse un forte valore di contestazione della società. Anche la vita di strada era una forma di contestazione. Certo a questo si affiancavano anche problemi familiari, situazioni di disagio ecc. Ma questi erano problemi secondari, la spinta era ideologica. Si sentivano diversi, più liberi e avevano l’illusione di poter smettere quando volevano.
Come arrivavano a voi?

Quando arrivavano alla disperazione per essere entrati in carcere o per aver distrutto la propria famiglia. A volte erano le famiglie che spingevano i figli da noi, mandandoli via da casa. Anche per le famiglie non era facile tener duro, non riaccogliere il figlio in casa. Chi non c’è riuscito però, in molti casi, il figlio l’ha perso.
Oggi, invece, chi sono i tossicodipendenti?
Oggi non ci sono motivazioni particolari. La nostra società è tutta orientata all’apparenza.
Non è facile reggere a questa pressione e ci si aiuta con la droga. È l’inizio della fine: le droghe sintetiche tanto diffuse ai nostri giorni sono estremamente distruttive. Per i giovani il “gruppo” è una dimensione essenziale: se nel gruppo si fuma è impossibile sfuggire, poi da lì molti vanno oltre. Inoltre mancano punti di riferimento stabili. I giovani sono sempre alla ricerca di qualcosa per cui spendere la vita; un tempo il partito o la contestazione davano una risposta, sebbene parziale, a questa esigenza. La frantumazione delle famiglie è un altro fattore importante. In tanti casi i figli sono usati come arma di ricatto dai genitori in conflitto. Se un genitore parla male dell’altro, il figlio cresce senza alcuna certezza. Oggi i ragazzi non fanno delle scelte consapevoli, si trovano tossicodipendenti senza sapere perché.
Però è molto diffuso il fenomeno dello “sballo del sabato sera”. Si vive una settimana normale poi si cerca l’eccesso durante il week-end. Dunque si può controllare.
Solo nei primi tempi. La possibilità di tenere sotto controllo l’uso di stupefacenti è una grande illusione. Non vale neanche per la sbronza del sabato sera, figuriamoci per le nuove droghe.
Che età hanno i tossicodipendenti dei nostro giorni?

Oggi prevalgono i giovani e gli anziani. Con l’alcol si comincia a 12-13 anni, poi si passa alle canne. È un fenomeno che coinvolge il 60% dei nostri giovani.
Possibile?

Certo. Nella gran parte dei casi si tratta di un fenomeno sporadico, i più riescono a fermarsi dopo le prime esperienze, ma non per tutti è così.
E gli “anziani” chi sono?

Sono gli ultra-quarantenni che cominciano ad usare la cocaina per reggere alla pressione della società. Oggi aumentano in maniera esponenziale le malattie come la depressione e la schizofrenia, anche tra i più giovani. Questo è certo conseguenza dell’uso di stupefacenti, ma in alcuni casi può esserne anche la causa. I ragazzi che crescono senza punti di riferimento sono più deboli. Conosco casi di ragazzi che in terza media già vengono trattati con le medicine perché, si dice, “sono iperattivi”.
Da cosa dipende questo fenomeno?

Spesso dalla mancanza di figure genitoriali autorevoli che trasmettano il senso del limite. Senza limiti i ragazzi non riescono a gestire i rapporti con gli altri, con la realtà e con se stessi. Molto spesso queste situazioni sfociano nella droga.
Cosa intende con “senso del limite”?

I genitori spesso non accettano di assumersi la responsabilità di esserlo. Quando il figlio va male a scuola danno la colpa all’insegnante. Non incolpano il figlio, perché dovrebbero prendersela con se stessi. La famiglia ha delegato alla scuola l’aspetto educativo che le è proprio. Ma la scuola non ce la fa. I giovani non seguono le parole, seguono l’esempio. Oggi purtroppo sono in pochi quelli che danno l’esempio. È un brutto momento, di disfacimento generale.
Da dove può venire un po’ di speranza?

Le nostre parrocchie potrebbero essere una fonte di speranza. Ma anche qui si sconta la situazione degli adulti. Gli adulti non sanno più testimoniare un’esperienza religiosa vera. Troppo spesso si limitano alla partecipazione alla liturgia. È già qualcosa, ma non incide nella vita di ogni giorno. Se mancano adulti credibili anche per la Chiesa è difficile intercettare i giovani. Nelle nostre comunità si passa per due estremi: dal qualunquismo all’impegno in gruppi e comunità molto chiuse. E i giovani non sono attratti né dall’uno né dall’altro.
Eppure sono molti i giovani che l’hanno seguita nelle sue attività…

È vero, ma oggi l’impegno è un aspetto poco valorizzato nell’educazione dei giovani. Viene proposto più a parole che con i fatti. Certo organizzare dei campi per invitare i giovani è un rischio, occorre fare mille assicurazioni. E per accogliere i ragazzi nelle nostre parrocchie occorrerebbe ristrutturare tutti i nostri locali.
Anche la burocrazia è soffocante. Oggi sono pochi quelli che se la sentono di correre dei rischi. Ma, con i giovani, se non rischi non ottieni niente. Se invece fai una proposta credibile sono disposti a seguirti, anzi, non aspettano altro.

© Gazzetta di Foligno – MAURO PESCETELLI

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