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Il Prof. Roberto Segatori interviene sul volume “Spendersi è il loro guadagno”

Le interviste ai sacerdoti di Foligno raccolte in volume dalla Gazzetta fanno pensare al doppio uso del verbo “riflettere”. Nate probabilmente con l’intento di promuoverne un uso intransitivo (“riflettere su qualcosa”), esse hanno finito per veicolare soprattutto il significato transitivo del verbo, quello cioè che si traduce nel “riflettere, ovvero rispecchiare, qualcosa o qualcuno”. Una commedia degli equivoci, dovuti probabilmente alla fretta nella redazione del libro, ha poi fatto sì che tale specchio si rivelasse contemporaneamente involontario e illuminante.
Il primo equivoco è stato alimentato dagli intervistatori della Gazzetta. Non si è capito (non si capisce) se essi si siano mossi sulla base di una condivisione di fede e di una complicità amicale (come si intuisce da alcuni passaggi di Guglielmo Tini e di Villelmo Bartolini), oppure di una ricognizione notarile (con le domande preconfezionate di un questionario a tratti bizzarro), oppure con la voglia di giudicare “i nostri preti” (sospetto cui non si sottraggono il prefatore e l’autore della nota introduttiva). Tra l’altro, si deve forse a questa traccia indeterminata e un po’ ambigua se si sono persi i riscontri preziosi di un parroco tanto amato come Don Luigi Filippucci
(A onor del vero, tali riscontri non ci sono stati perchè il sacerdote ha rifiutato il colloquio con l’intervistatore. Anche altri hanno preferito non rispondere. E noi abbiamo rispettato la libertà di tutti. AN).
Il secondo equivoco si ritrova poi nelle risposte dei sacerdoti. C’è stato chi, andando al di là del “temario”, ha offerto bellissime testimonianze personali (ad esempio Don Dino e Don Dante); chi ha fornito risposte da catechismo (magari eruditissime come Don Mario); chi si è mosso con un “accorto” equilibrio tra le due modalità (Don Giuseppe e i due Don Giovanni) e chi l’ha buttata sull’ironia (Don Venanzo).
Nonostante ciò, anche nella sua “involontarietà”, il libro-specchio ha mostrato cose illuminanti. Ne indico cinque tra le tante possibili. La prima: probabilmente a causa dell’età avanzata molti sacerdoti fanno riferimento ad un mondo che non esiste più e faticano a comprendere il nuovo. Ciò appare nell’incapacità a capire che la residenzialità si è fatta mobile e fluida e non più statica, i lavori e lo studio portano lontano fisicamente anche se si resta virtualmente vicini, e che la parrocchia-comunità stanziale è vissuta così solo dai fedeli più anziani. La seconda: quasi tutti i preti danno l’impressione di essere dei “cavalieri solitari”, di fare poca comunità tra loro, nonostante l’opportunità offerta dalle unità pastorali. Paradossalmente c’era più comunione fraterna quando tali unità non esistevano. Ricordo con nostalgia i tempi in cui (primi anni settanta) Don Luigi Filippucci, Don Giuseppe Betori e Don Giuseppe Bertini vivevano insieme a Maceratola al servizio delle parrocchie della pianura, e noi giovani laici li andavamo a cercare per stare insieme a loro. Una sostanziale estraneità sembra oggi farla da padrona, senza che scatti uno spirito di comunione (questa sì “cattolica”) con i religiosi-preti e con quegli altri, i “preti stranieri”.
La terza: i laici compaiono sempre come soggetti “residuali”. Sono chiamati a “collaborare” laddove il prete non arriva. Nessun riferimento al “sacerdozio del popolo di Dio”. Così è per il ruolo delle donne nella Chiesa. Risposte ortodosse, per carità. Tutti richiamano con devozione l’importanza di Maria e delle Sante e Beate. Ma ciò non corrisponde alla diversa valutazione del proprio ruolo da parte di molte donne cattoliche figlie della modernità. La quarta: il tema della sessualità dei preti è messo disinvoltamente alla porta. Per molti, vista l’età, lo sfumare della questione è comprensibile. Per altri, il cavarsela in poesia convince di meno. Non sono in dubbio le loro virtù, ma resta il sospetto che, specialmente oggi, l’argomento meriti ben altri approfondimenti, come quello delle deviazioni e di una più puntuale declinazione dei peccati.
Ma c’è una quinta cosa che, a differenza delle precedenti, fa attribuire rispetto e perfino affetto a questi preti. Tutti quanti hanno una bussola a cui ispirarsi. Magari non la stessa bussola: chi la trova nei valori dei propri genitori o di un maestro di fede, chi nella preghiera a Dio, chi nella proposta radicale di Cristo, chi nell’amore per la Madonna, chi nella Beata Angela, chi nella carità nel sociale. Tutti però (e in ciò sono diversi dalla maggior parte degli uomini di oggi) portano in cuore un fuoco che li aiuta anche a fronteggiare lo strisciante isolamento della loro condizione. Inoltre tutti dimostrano di essere tenaci “seminatori di fede”. L’unica cosa che non capiscono, su cui sono confusi, è come mai improvvisamente il terreno intorno sia diventato tanto arido mentre quaranta-cinquanta anni fa era amichevole e fecondo. Ma questa è una storia che forse dovrebbero farsi spiegare da quei laici un po’ invisibili e un po’ messi al margine.

Roberto Segatori

A onor del vero
Nota a margine della lettera del prof. Segatori

Per scontrosità di carattere non entro mai nel merito delle discussioni che reputo del tutto lontane dal mio interesse e delle mie competenze, anche quando questo atteggiamento possa far pensare ad alterigia e supponenza: dell’una e dell’altra non mi curo. C’è tuttavia un passo della lettera del prof. Roberto Segatori al quale devo controvoglia far riferimento per precisare una questione che mi dà molto fastidio. Egli scrive che “si sono persi i riscontri preziosi di un parroco tanto amato come Don Luigi Filippucci” a causa della traccia “indeterminata e un po’ ambigua” delle domande ai nostri sacerdoti. No. Proprio in nome di una complicità amicale con don Luigi, al quale voglio bene da sempre e sempre di più, avevo chiesto al mio direttore di poterlo intervistare. Sarò sincero: con lui, come con don Dante o don Giuseppe o don Luciano, avrei fatto una chiacchierata al di fuori delle domande prestabilite come indicazione di massima; ne avrei tratto un’intervista, diciamo così, all’impronta, certissimo dei riscontri preziosi di don Luigi. Ma don Luigi non ha voluto farsi intervistare: tutto qui. Abbiamo parlato a lungo, drammaticamente, come forse solo una vera amicizia può consentire e, drammaticamente, ci siamo confrontati sui motivi di quel no. Sono convinto che le cause siano chiuse per sempre nell’animo di chi le ha pensate; noi, ed io per primo, abbiamo rispettato quanto don Luigi sentiva di dover fare, sulla base di tutto quello che egli stesso (con la chiarezza e l’acutezza che da sempre gli riconosco) mi ha detto in quella mattina tesa e limpida, senza nubi di ipocrisie. Ma forse alla fine abbiamo tutti e due perso qualcosa.

GUGLIELMO TINI

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