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Io ricordo…

La testimonianza di chi l’ha conosciuto di persona

Quello che io ho vissuto, per lunghissimi anni a servizio della Chiesa di Foligno, appartiene in gran parte alla normalità della vita quotidiana, segnata qua e là da qualche sussulto, inevitabile per chi vive in un territorio sismico, sia in senso fisico che sul piano dei valori. Succede sempre a noi anziani, ed è una comprensibile consolazione, di tornare a rovistare nel polveroso archivio della memoria per rievocare persone e avvenimenti di tempi lontani e poi godere a raccontarli a chi ha la pazienza di ascoltarci, più per educazione che per interesse.

Mi è stato chiesto di ricordare Monsignor Faloci Pulignani e ho accettato volentieri, perché sono certo che, questa volta, sarà solo l’interesse a muovere i miei venticinque lettori. Monsignor Faloci appartiene alle vicende di un preciso periodo di tempo, che va dalla fine dell’800 a buona parte del ‘900, e per fa parte del mondo della cultura per un particolare settore della storia, oggetto della sua ricerca. Indagare sui risultati e sul valore dei suoi studi non è un lavoro per me; io l’ho conosciuto, gli sono vissuto accanto, ho spesso parlato con lui e assistito, più di una volta, a qualche vivace scambio di parole quando qualcuno tentava di demolire le sue convinzioni su personaggi e date della sua ricerca storica. Chiudo gli occhi e lo rivedo mentre percorre lentamente il marciapiede che unisce le due facciate della Cattedrale: quel passo lento e strascinato, quegli occhi sempre in movimento per le vetrine dei negozi e la gente in giro sulla piazza, davano l’impressione di una sentinella, che stesse lì a vigilare il suo grande tesoro, quella Cattedrale per la quale ha tanto lavorato e sofferto. Rivedo il suo viso, serio ma non severo, attento a tutto ma non preoccupato; quei due occhi limpidi, che non portavano i segni delle dure battaglie sostenute in passato, ma rivelavano un cuore incapace di odiare. Una corona di capelli candidi dava al suo viso quel fascino senile, che spinge i bambini a gettare le braccia al collo dei nonni. Al centro del viso c’erano gli occhiali, sempre calati verso la punta del naso, con lenti a mezzaluna, che davano l’impressione che stesse sempre intento a consultare qualche codice antico. Quando ti fermavi davanti a lui, abbassava leggermente il capo e ti guardava al di sopra di quelle inamovibili lenti con una intensità che te lo faceva sentire subito amico. Era generoso, perché non dava alcun peso al denaro.

Io ero ancora studente di teologia e, un giorno di vacanza, io e quattro miei compagni di scuola decidemmo di fargli visita in casa. Ricordo un corridoio lungo e stretto, carico di tanti libri da costringerci a muoverci lentamente uno dietro l’altro; al centro un piccolo tavolo e lui seduto e intento a sfogliare le pesanti pagine di un vecchio volume. Sopra il tavolo troneggiava una pila di libri, che sembravano freschi di stampa. Ci disse: “È il libro della Beata Angela, che ho riveduto e fatto stampare: questi sono per amici esperti di questo studio”. Gli chiedemmo di donarceli; lui resistette un po’, ma poi ce li consegnò scrivendoci anche una piccola dedica. Sul mio è scritto: “Per Alessandro Trecci, dono involontario. Don Michele Faloci”. Al principio dell’inverno, la sua domestica lo avvertì che le sue maglie pesanti erano in condizioni disastrose. In Largo Carducci c’era un’antica merceria (“da Biagini”) e lui scese, comperò due maglie di lana e si avviò verso casa tenendo il pacco stretto tra le braccia. Gli si accostò un vecchietto, un mendicante messo proprio male. Ma Monsignore non aveva più nulla in tasca e “prendi questo” disse, e gli consegnò le sue maglie. Difficile, ora, era tornare a casa. Si dice, giustamente, che nessun uomo, sia pure celebre, è grande per il suo cameriere. Di due sole persone Monsignore aveva una certa soggezione: della sua domestica in casa e del sacrestano in Cattedrale. Io ricordo bene quella donna – Nena – già in là con gli anni, piccola, segaligna, bruttina, dalla voce stridula, che raggiungeva alte tonalità, quando Monsignore provava a interferire nelle sue decisioni nel governo della casa. Ma c’era in lei tanto affetto per il suo sacerdote, da respingere, spesso in malo modo, chi lo avesse disturbato nei momenti di riposo e da urlare, arrabbiatissima, quando lui, occupato spesso in colloqui con persone importanti, tentava di rifiutare le medicine, che gli preparava all’ora precisa stabilita dal medico. In cattedrale c’era “Raffaellittu”, sagrestano da più di cinquanta anni, piccolo, leggermente curvo, ma sempre in movimento. Geloso custode della sua chiesa, non permetteva che alcuno interferisse nella preparazione degli altari, nella collocazione dei vari tipi di candelieri secondo la varietà delle feste; pronto a richiamare all’ordine i signori canonici, si scontrava spesso con Monsignore, il quale,essendo priore e perciò la più alta autorità del duomo, prendeva decisioni quasi sempre contestate da quel piccolo servo-padrone.

Non si sa perché, ma tutti sapevano che Monsignor Faloci nutriva una tranquilla antipatia per Spello e per i suoi abitanti. Li chiamava “filii exscussorum” cioè figli delle mani scosse. E spiegava: Dio aveva costruito il corpo del primo uomo e alla fine, aveva le mani sporche di fango. Allora le scosse fortemente e da quelle mani, invece del fango, caddero i primi spellani. Ricordo che una volta entrò in sacrestia una donna, evidentemente molto povera. Ecco il breve dialogo a cui assistetti: “Di dove siete?” “Aldilà della Chiona” “Siete spellana! Non vi do niente”. Ma poi la raggiunse e le diede più di quanto lei avesse sperato.

Questo è il Faloci che io ho conosciuto, vivendo accanto a lui per sette anni. Il peso dell’età lo costringeva a muoversi lentamente e sembrava avere spento gli ardori dell’età giovanile, quando la sua Gazzetta non risparmiava critiche, spesso aspre, ma motivate, verso gli amministratori del Comune, alla cui guida si alternavano socialisti anticlericali e liberi massoni, anch’essi dal dente avvelenato contro la Chiesa. C’era a Belfiore il capo del partito socialista, che il Faloci aveva dipinto “il filosofo di Cuturuzzu”. Questo era un piccolo torrentello che scorreva nei pressi del paese, piuttosto rumoroso perché scendeva in discesa tra cumuli di pietra, ma povero di acqua. Forse non c’era un modo più elegante per definire la potenza dei polmoni, che esplodeva in comizi (il torrente) e la povertà di cultura (il filosofo). Oggi la sua Gazzetta naviga in acque apparentemente tranquille, perché gestite in gran parte da insegnanti con vocazione di educatori, si dedica soprattutto a proporre i grandi valori che danno senso alla vita. In un momento in cui la lotta è tra gli amministratori della cosa pubblica, non c’è neanche bisogno di prendere posizione urlando la propria disapprovazione, anche attraverso la nostra stampa; gli italiani sono abbastanza intelligenti da formarsi un giudizio, del tutto negativo. Mons. Faloci è vissuto in situazioni diverse, quando si trattava di lottare, con tutti i mezzi e ad alta voce per la difesa della verità e dei grandi valori della fede. Dice il dott. Schweitzer, il grande apostolo dei lebbrosi: “Se quando predichi o scrivi, non c’è mai nessuno a cui dispiaccia ciò che tu dici, vuol dire che non hai detto tutta la verità”. Mons. Faloci ai suoi tempi, ha detto coraggiosamente tutta la verità, rischiando, come una volta è successo, di prendere in piazza uno schiaffo dal sindaco massone allora in carica. Uno schiaffo che non brucia e ti lascia in pace con te stesso, ricordando che il tuo Maestro, per aver detto tutta la verità, è stato anche lui schiaffeggiato ed è finito in croce, ma così ha salvato il mondo.

© Gazzetta di Foligno – Don ALESSANDRO TRECCI

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